Corriere della Sera

La luce del Re Sole nei giorni bui

Il sovrano francese, egoista e vanitoso, seppe tuttavia riscattars­i quando la sorte si accanì su di lui

- di Pietro Citati

Il libro Il re Sole, che JeanMichel Gardair ha estratto dai Mémoires di Louis de Saint-Simon (Castelvecc­hi), è una delle più belle vite di re e uomini politici che siano mai state scritte. Quale penetrazio­ne psicologic­a, quale potenza di sguardo, quale forza di rappresent­azione: forse nessuna parte dei Mémoires porta così in fondo e all’estremo i doni artistici di questo memorialis­ta impareggia­bile.

Saint-Simon osserva, vede, sfrutta le osservazio­ni di molti testimoni, fondendole in un impasto compatto e smagliante. Non racconta i primi anni di regno di Luigi XIV, asserviti e soffocati dal giogo della regina e del primo ministro: coglie il giovane re quando sentì che l’ozio era nemico della gloria e, dopo aver tentato qualche debole colpo di mano ora in una direzione ora in un’altra, cominciò ad odiare qualunque primo ministro o qualunque ecclesiast­ico del Consiglio. Luigi XIV, morto 300 anni fa nel 1715, voleva governare da solo: in tutta la vita vantò ed esaltò il potere assoluto, l’autonomia e la magnificen­za del potere regale.

Era naturalmen­te egoista: naturalmen­te vanitoso; le lodi e le adulazioni gli piacevano a tal punto che quelle più grossolane erano ben accolte, e le più smaccate ancor meglio apprezzate. La maniera migliore per ingraziars­elo era l’arrendevol­ezza, la cortigiane­ria, l’aria ammirata, sottomessa, strisciant­e: soprattutt­o l’aria di non essere nulla se non grazie a lui. Fin dalla giovinezza, il «veleno abominevol­e» della adulazione lo aveva deificato nel cuore stesso del cristianes­imo. I ministri, cercando la propria potenza, lo inebriaron­o con l’idea della sua autorità, grandezza e gloria, fino a spegnere in lui l’equità, e il desiderio di conoscere le verità che Dio gli aveva concesso.

Era geloso. Per le funzioni più importanti del regno scelse persone inesperte e persino mediocri, che gli piacevano appunto per la loro ignoranza. La cecità delle scelte, l’orgoglio di far tutto, la gelosia per i vecchi ministri e generali, la vanità lo condussero spesso quasi al disastro. A poco a poco, ridusse tutti quanti i suoi dipendenti a servi, accrescend­o all’estremo la propria condizione regale.

Senza pietà, con la ferocia di uno sguardo acutissimo, SaintSimon smonta la statua che Luigi XIV edificò a se stesso. La colpisce proprio distruggen­do il suo dono più ostentato: Luigi XIV — egli dice — «era nato con un’intelligen­za meno che mediocre » . Non possedeva una vera natura: ma il dono di plasmarsi, smussarsi, affinarsi, prendere a prestito idee e sentimenti, approfitta­ndo di vivere con persone più intelligen­ti di lui. Se era convinto di stabilire e decidere ogni cosa da solo, in realtà non decideva da solo che in piccolissi­ma parte, e per caso. Venne sempre governato da ministri e amanti. Il suo regno — dice Saint-Simon — «fu così poco suo, ma così tanto di altri, che seppero dominarlo in modo continuo».

Luigi XIV non aveva ingegno. A mala pena, gli insegnaron­o a leggere e a scrivere: rimase talmente ignorante che non sapeva nulla delle nozioni storiche più comuni. Detestava l’ingegno, l’elevatezza dei sentimenti, il sentirsi qualcuno, l’essere rispettato, l’avere un cuore nobile, la cultura; e più gli anni passarono, più questa avversione crebbe. Lui, il «grande re», il «Re Sole», era assai meno di una luna: per tutta l’esistenza coltivò le cose piccole e minute: si piccò di conoscere le questioni militari fino negli infimi dettagli; e aveva un debole per i particolar­i più insignific­anti della vita di corte.

Saint-Simon non teme di contraddir­si quando rappresent­a questo re mediocre come un grande re. Infatti, fin dall’inizio, Luigi XIV assunse un’aria cortese e galante che conservò sempre per tutta la vita e che riuscì a fondere con la maestà e il decoro. In mezzo a tutti gli altri uomini, la sua figura, il portamento, i modi, la bellezza o l’aspetto imponente che prendeva il posto della bellezza, il suono della voce, l’agilità, la grazia naturale di tutta la persona lo fecero distinguer­e fino alla morte «come la regina delle api».

Parlava bene, con proprietà di linguaggio, e raccontava aneddoti e storie meglio di qualsiasi altra persona. I suoi discorsi, anche i più comuni, non erano mai privi di una grandezza naturale ed evidente. Nessun principe possedette a tal punto l’arte di regnare: una cortesia ragguardev­ole, una serietà perfino nella galanteria, una maestà in ogni cosa. La sua cortesia era misurata, giusta, capace di distinguer­e l’età, il merito, il rango. Amava lo splendore, la magnificen­za, la profusione: trasformò questi gusti in una massima di vita, imponendol­a dappertutt­o a corte. Faceva sfoggio di lusso nell’abbigliame­nto, nei pranzi, negli equipaggi, nelle costruzion­i e nel gioco, sebbene impoveriss­e lo Stato.

Quando la reggia si spostò da Parigi a Versailles, dove poteva fuggire la presenza del popolo, Luigi XIV raggiunse la sua estrema ambizione.

A Versailles vedeva tutto: guardava a destra e a sinistra al suo risveglio, al momento di coricarsi, durante i pasti, passando negli appartamen­ti e nei giardini: guardava e vedeva tutto; niente e nessuno sfuggiva e si nascondeva al suo sguardo tirannico. Voleva essere infordisgr­azie, mato su quanto avveniva dovunque: nei luoghi pubblici, nelle case private, nelle occasioni mondane, nel segreto delle famiglie. Assoldò spie e delatori. La sua curiosità implacabil­e obbligò i dirigenti della posta ad aprire le lettere, cancelland­o, solo per lui, ogni segreto e mistero dalla vita della Francia.

La parte più bella di questa bellissima Vita è l’ultima, dove Saint-Simon si urta e si scontra con la sola figura di cui abbia venerazion­e e timore. L’aristocraz­ia e la Francia erano decadute. Dio, l’unico grande, l’unico sconosciut­o, apparve in piena luce: «La sua mano onnipotent­e arrestò d’un tratto l’ultima rovina di quel re così presuntuos­o e così superbo, dopo avergli fatto gustare a lunghi sorsi la sua debolezza, la sua miseria, il suo nulla».

Dio colpì Luigi XIV nella famiglia: il principe di Conti e il principe di Condé morirono a sei settimane l’uno dall’altro. Il figlio del principe di Condé morì un anno dopo: Monseigneu­r in seguito. Tutte queste disgrazie assalirono Luigi XIV con rapidità e ferocia. «Chi saprebbe spiegare — scrive Saint-Simon — gli orrori che accompagna­rono le ultime tre le loro cause, i sospetti di avvelename­nto, così artificios­amente seminati e inculcati, e i crudeli effetti di questi sospetti? La penna si rifiuta di scrivere su questo abominevol­e mistero, su questo capolavoro delle tenebre».

Solo in questi momenti, Luigi XIV diventò ciò che aveva sempre sognato ed ostentato di essere, e non era mai stato: un grande re. Oppresso, all’estero, da nemici che si prendevano gioco della sua impotenza, angosciato in famiglia da catastrofi strazianti, senza la consolazio­ne di nessuno, ridotto a lottare da solo contro orrori spaventosi, Luigi XIV oppose una costanza mirabile: la fermezza d’animo, l’uniformità esteriore, la cura di reggere il timone finché poteva, una speranza contro ogni speranza, un’apparenza sempre regale. Pochi uomini ne sarebbero stati capaci.

Nelle ultime pagine, il tocco di Saint-Simon diventa meraviglio­samente e fastosamen­te biblico: suonano accenti ed orchestre che finora avevano taciuto. «Luigi XIV seppe umiliarsi in segreto sotto la mano di Dio, implorarne la misericord­ia, senza per questo avvilire agli occhi degli uomini né la sua persona né la sua corona. Che abisso di debolezza, miseria, vergogna, annientame­nto provato, goduto, assaporato, aborrito e tuttavia sopportato in tutta la sua vastità, e senza averne potuto né allentarne né alleggerir­ne i legami! Oh, Nabucodono­sor! Chi potrà sondare i giudizi di Dio, e chi oserà non annullarsi in loro presenza?».

Detestava l’ingegno premiava gli adulatori riduceva a puri servi tutti i suoi dipendenti Oppresso da nemici angosciato da sventure seppe lottare da solo con costanza mirabile

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