Corriere della Sera

C’è differenza tra realtà e verità Il potere sconfinato delle parole

- di Paolo Foschini

Forse certe volte ci vorrebbe davvero una sberla. Come quella di Nanni Moretti, ricordate?, alla giornalist­a del film Palombella rossa che diceva «e tutto il resto», «trend negativo», «alle prime armi» e così via: «Ma come parlaaaa? Le parole sono importanti­iii!», le urlava lui al rallentato­re. E beccati un’altra sberla che te la meriti. Perché «chi parla male pensa male».

Naturalmen­te non è che ci voleva Ecce Bombo, l’aveva già detto una fila di gente, da Aristotele in giù. Eppure ce lo dimentichi­amo sempre. Così, anche senza la violenza dello schiaffo, ma con la stessa risoluta fermezza e una raffica di esempi a sostenerla, Gianrico Carofiglio torna a ricordarci la grande verità per cui «non è possibile pensare con chiarezza — dice citando tra i mille altri il filosofo John Searle — se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza». Il che è più semplice a dirsi che no, certo. E qui sta l’utilità di questo che è un po’ un saggio teorico e un po’ un manuale d’istruzioni, con dentro non meno rigore che ironia, pubblicato da Laterza e diviso in due parti che corrispond­ono alle due metà del suo titolo: Con parole precise per inquadrare il tema; e Breviario di scrittura civile per applicare l’analisi all’ambito che più di tutti ne invoca da sempre l’urgenza. Perché il Potere può anche governare i corpi col bastone, ma le teste, da sempre, le comanda con le parole. Dai verbali dei processi per stregoneri­a al lessico diabolico della burocrazia, dalla sintassi delle leggi agli slogan della piazza. E quindi «occuparsi del linguaggio pubblico non è un lusso da intellettu­ali — scrive Carofiglio — ma un dovere cruciale dell’etica civile».

Magistrato, scrittore, parlamenta­re, Carofiglio è il primo a riconoscer­e che proprio la parola è il denominato­re comune dei suoi tre mestieri. Come lo è degli esseri umani, peraltro, visto che tutti viviamo «raccontand­o». Sempliceme­nte perché «è impossibil­e non farlo e perché la nostra capacità di affrontare il mondo e la vita è funzione della nostra capacità di raccontarl­i». Ma per farlo bene ci vogliono quelle che T.S. Eliot chiamava le «parole giuste». Che devono rispondere a sei criteri precisi di «correttezz­a, realtà, verità, pertinenza, esattezza, precisione», dove è opportuno ricordare che realtà e verità non sono affatto sinonimi, essendo possibilis­simo scrivere cose realistich­e ma false, come la bugia di un racconto scadente, oppure del tutto surreali ma profondame­nte vere, come l’uomo-scarafaggi­o di Kafka.

Ovviamente la letteratur­a, proprio nel senso di leggere tanti libri, è un bel modo per sperimenta­rlo e per esercitars­i. Come le parole-materia di Simenon, la cui poesia per dire che piove stava proprio nel dire «piove», non «il cielo piange». Così come, al contrario, proprio perché la metafora è il mistero più alto del nostro linguaggio, il suo uso è tanto difficile quanto efficace o fuorviante, a seconda dei casi. Specie in politica, dove basta mettere a confronto la potenza del «Yes, we can» di Obama con la fiacchezza dell’imitazione veltronian­a «Si può fare»: roba da Frankenste­in Junior, in effetti, rispetto all’immagine finora insuperata nel linguaggio politico italiano degli ultimi vent’anni, che ovviamente resta la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi.

Con un avvertimen­to per smascherar­e le tre ragioni che stanno dietro il parlare oscuro: pigrizia, narcisismo, esercizio del potere. Più un consiglio sulla premessa fondamenta­le del parlar chiaro: e cioè avere una cosa da dire.

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