Corriere della Sera

«C’è in gioco il futuro del mondo» Ma l’accordo vincolante è lontano

Renzi loda l’impegno italiano nella riduzione delle emissioni: «No a un patto scritto sulla sabbia»

- DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE @Stef_Montefiori Stefano Montefiori

La giornata d’apertura della ventunesim­a conferenza delle Nazioni Unite sul cambiament­o climatico ha visto i 150 capi di Stato e di governo prendere la parola tre minuti ciascuno ( molti, per esempio Obama, hanno sforato) per esprimere più o meno lo stesso concetto: ora o mai più.

« Prenderemo in qualche giorno decisioni che avranno conseguenz­e per decenni, in gioco c’è l’avvenire del mondo » , ha detto il presidente francese François Hollande, che ha voluto collegare la minaccia del terrorismo a quella del cambiament­o climatico.

«Sono le due grandi sfide che dobbiamo raccoglier­e — ha detto Hollande —, perché ai nostri figli dobbiamo lasciare in eredità non solo un mondo liberato dal terrore. Dobbiamo loro anche un Pianeta preservato dalle catastrofi». «Non potremo

dire alle generazion­i future che non sapevamo — ha dichiarato il presidente della Commission­e europea JeanClaude Juncker —. Dobbiamo e possiamo lasciare un mondo più sicuro». «Siamo l’ultima speranza per le generazion­i future», ha ribadito il presidente americano Barack Obama, a capo del secondo Paese più inquinante al mondo dopo la Cina.

Nessuno che abbia detto di preferire un pianeta più sporco, caldo e pericoloso, ovviamente. Ma gli esercizi retorici dei leader, intrapresi con grande convinzion­e e sfoggio di toni epocali, si scontrano con tre problemi. Il Congresso degli Stati Uniti (a maggioranz­a repubblica­na) non ratificher­à mai l’accordo vincolante che molti si augurano — come del resto accadde con i protocolli di Kyoto — e che quindi è piuttosto improbabil­e. Le trattative puntano a usare l’immaginazi­one per trovare altre forme giuridiche, magari un meccanismo di controllo e revisione ogni cinque anni dei risultati ottenuti, con una sanzione soprattutt­o morale per gli inadempien­ti.

In secondo luogo, l’India ha deciso di farsi l’interprete dell’argomento che da decenni accompagna questo genere di riunioni e che è arrivato anche a Parigi: i Paesi emergenti non possono rinunciare alle energie fossili e frenare il loro sviluppo per riparare ai danni fatti in due secoli dai Paesi più avanzati; i contributi alla lotta contro il riscaldame­nto climatico devono essere differenzi­ati, e i Paesi che adesso inquinano di più ma sono anche più poveri devono pagare meno degli altri.

Infine, i proclami dei leader pongono una terza questione. Mai come oggi la credibilit­à dei responsabi­li politici è messa in discussion­e in tutto il mondo, così come la loro capacità di influire realmente sulla realtà. Se l’11 dicembre la COP21 dovesse concluders­i senza risultati concreti, il ricordo dei discorsi solenni ascoltati ieri diventereb­be davvero imbarazzan­te.

Il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi preferisce non nascondere le difficoltà: «Serve un accordo il più vincolante possibile, altrimenti rischia di essere scritto sulla sabbia». L’Italia si è presentata alla conferenza del Bourget con le carte in regola, dice Renzi: «I cittadini italiani devono essere orgogliosi del lavoro che stanno facendo le aziende, i politici e le associazio­ni italiane. Dal 1990 ad oggi abbiamo ridotto le emissioni del 23%, abbiamo un piano di investimen­ti per 4 miliardi di dollari da qui al 2020, siamo leader nella geotermia e fra i leader nel solare e nelle biomasse. Ma l’Europa vale solo il 10% delle emissioni globali. Noi stiamo facendo la nostra parte ma non tutti, a livello mondiale, si comportano allo stesso modo».

Il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, a margine della conferenza, ha indicato da chi vengono i pericoli di fallimento: «Il vero problema è l’India». Tra gli altri Paesi meno disposti a concession­i e a cambiare il proprio modello economico-industrial­e, l’Arabia saudita e il Venezuela (e in Europa la Polonia). Per vincere le loro resistenze, il ministro degli Esteri francese e presidente della COP21, Laurent Fabius, lavora affinché «nel 2020 i Paesi ricchi finanzino la transizion­e energetica dei Paesi poveri con 100 miliardi di dollari l’anno».

In serata sei Paesi — Francia, Germania, Canada, Cile, Etiopia e Messico — hanno lanciato un appello assieme alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazio­nale per fissare un prezzo universale del carbone, in modo da scoraggiar­ne l’utilizzo e orientare tutti i Paesi verso le energie rinnovabil­i.

L’obiettivo finale della COP21 è limitare a 2 gradi centigradi il riscaldame­nto climatico del Pianeta ( adesso siamo a + 0,85°), anche se alcuni Paesi come la Francia e l’Italia sarebbero disposti ad un più ambizioso 1,5°. I lavori sono appena cominciati. Come dice Laurent Fabius, «non tutto si risolverà a Parigi, ma niente potrà risolversi senza Parigi».

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