Quelle bugie per Luana «Mi mostrò un test falso dicendomi che era sano»
ROMA «Era il tipo che scendeva ad aprirti la portiera dell’auto. Mai distratto, ti guardava con rispetto, ammirazione, curiosità, interesse. Innamorato dalla testa ai piedi. Attento ai dettagli: uno così, mi ripetevo, non lo trovo più » . I dieci mesi d’amore di Valentino T. (questa è la sua vera identità) e Luana (il nome è di fantasia) sono in un verbale dell’inchiesta della procura di Roma. Assieme ai tabulati degli iPhone, ai racconti degli amici, ai referti medici. Il perimetro criminale di Valentino T. è ancora in fase di definizione. La stima è di almeno altri cinque casi di donne infette e inconsapevoli di aver contratto il virus dell’Hiv.
Com’era stare con l’uomo di «disperante indifferenza» descritto ora dai magistrati che lo hanno arrestato e accusato di lesioni gravissime? È Luana a raccontarlo, la prima a denunciare. Venticinque anni, capelli lunghi, voce pacata. Lucida, spiritosa, istruita, consapevole del suo corpo e delle sue capacità. Non si sopravvaluta ma, certo, non si butta giù.
Valentino le appare per la prima volta nell’estate del 2013, sotto forma di nickname. E lei racconta: « L’ho conosciuto chattando, era “Vale” per tutti, siamo usciti, ero attratta, abbiamo fatto l’amore». Tutto è sembrato piacevole, appagante. Ogni proposta che veniva da lui suonava « percorribile » . Luana non rifiutava mai. Rapporti senza protezione? Perché no. Sesso a tre? Ok. Sperimentiamo. Lui ha altre avventure? E sia, a me, questo evidentemente pensava, non toglie nulla.
Per un anno va così, spiega la ragazza all’agente di polizia (una donna) e al magistrato che coordina l’inchiesta. A luglio 2014 una conversazione con Giulia, un’amica comune, capovolge il suo universo: «Valentino è sieropositivo, tu lo sapevi, te l’ha detto?».
In quel momento Luana si sente «un mezzo e non un fine».
Finto romantico «Faceva l’innamorato: era il tipo che scendeva ad aprirti la portiera dell’auto»
Cose così non si comprendono subito, ci vuole tempo per realizzare. Lei lo chiama, piovono accuse, lui si difende e la offende a sua volta, lei non gli crede, lui è sdegnato, protesta, prende tempo, cerca una via di fuga. Lo soccorre WhatsApp: «Su insistenza di lei — scrive il gip — le invia sul cellulare l’immagine fotografica di un asserito referto rilasciatogli dall’ospedale Sant’Eugenio». Ecco, le dice, vedi? Il test è negativo.
Luana torna a respirare. Si tranquillizza, però qualcosa le lavora dentro. Ha il suo equilibrio, i suoi affetti, non è sola: decide di non credergli. Si sottopone al test a sua volta. Il 2 ottobre 2014, con la prescrizione medica, fa gli esami. Sieropositiva all’Hiv. Ora lo sa. Si rivolge agli investigatori e denuncia per sé ma, forse, anche per le altre. Arriva in Procura, dove deve rispondere a domande su se stessa anche se a questo punto tutto sembra precario, incluso il suo equilibrio: «Lei sa che le lesioni che ha contratto non sono curabili, che non esistono terapie?», le dicono. Luana ascolta, replica che è una ragazza come le altre, non sa nulla dell’Aids. È una patologia remota, un virus sconfitto, una malattia da cui si guarisce con l’antibiotico giusto. Le spiegano di no, che non è così purtroppo.
Ma quel referto negativo che lui le ha inviato dall’iPhone allora? «Clamorosamente falso, ci spiace», le dicono. I magistrati oggi lo inseriscono fra i capi d’imputazione. È una bugia dalle gambe cortissime: «La comparazione di quel documento con il certificato delle analisi successivamente fatte presso lo stesso ospedale dalla madre della denunciante — scrive il giudice nell’ordinanza di misura cautelare — mette in mostra difformità grafiche». Insomma, è una contraffazione. Il Principe era fasullo. Luana piange a casa. In Procura si asciuga gli occhi e racconta ogni cosa.