È UN CONTRATTO TRA PARTI LIBERE
È un contratto libero Chiederne il bando ci riporta all’illegalità È una nuova forma di sfruttamento o la possibilità in più di avere figli per coppie (etero e omosessuali) infertili?
Il mio augurio è che solo una parte minoritaria si riconosca nell’appello contro la pratica della maternità surrogata. È un contratto libero. Metterlo al bando favorisce l’illegalità.
Mi auguro che sia solo una parte minoritaria del vasto mondo femminista quella che si riconosce nel recente appello italiano contro la pratica della maternità surrogata, più conosciuta con la formula, decisamente spregiativa, di «utero in affitto». Questo appello italiano, firmato dal movimento «Se non ora quando», segue di qualche tempo uno analogo francese, ugualmente sconcertante sia per l’opinabilità dei presupposti morali e filosofici spacciati per verità eterne e incontestabili, sia per le misure giuridiche che vengono invocate.
Partiamo dal fatto nudo e crudo. Una donna, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, ed esercitando la sua libertà, aiuta con il suo corpo una coppia a far venire al mondo un figlio, sobbarcanplessa dosi, in cambio di un compenso pattuito, la gravidanza. Questo contratto fra esseri umani liberi e consapevoli, che non comporta nessuna forma di violenza o sfruttamento, è permesso solo in alcuni Paesi. In Canada, negli Stati Uniti, in Grecia leggi eque e trasparenti regolano ogni aspetto di questa com- avventura umana. In altri Paesi la norma è più restrittiva, in altri ancora, come accade in tutte le cose di questo mondo, le norme possono essere perfezionate, e in ogni caso andranno monitorati con enorme attenzione gli effetti sulla salute delle donne che «affittano» l’utero a un ovocita non loro. E nessuno può affermare che questa non sia una vicenda complessa, più complessa di una normale maternità, che necessita in chi la affronta energie e attenzioni particolari. Non l’hanno presa certo sotto gamba i legislatori americani.
Possiamo dire che sotto i nostri occhi si sta svolgendo un esperimento umano che è tanto più bisognoso di legalità e di garanzie quanto più è delicato, ricco di incognite. A sua difesa, potrei suggerire che il principio stesso della surrogacy, considerato in sé, vale a dire la possibilità di prendere su di sé una parte del destino di un altro, è uno dei fatti che può renderci fieri di essere umani. E mi stupisce che molte critiche all’«utero in affitto» (lo chiamo così, non vedendo nulla di male né nel concetto di «utero» né in quello di «affitto») si fondino sul fatto che questa surrogacy sia pagata, perché è come se sostenessi che la musica di Mozart è svilita dal fatto che pago il biglietto del concerto. Tassato e sancito da un contratto, il denaro è il baluardo dei diritti, non dello sfruttamento invocato a sproposito dalle autrici dei due manifesti.
Quanto agli altri argomenti usati per far cessare quello che si ritiene una specie di crimine contro l’umanità, stupiscono per la loro povertà concettuale. Cent’anni di pensiero femminista hanno partorito una concezione della maternità così mistica e nello stesso tempo così angusta? Non sarebbe bastato alle autrici del manifesto, per allargare le loro idee, conoscere qualche bambino allevato con amore da coppie che si sono fatte aiutare a farlo venire al mondo? Ma tutto questo non meriterebbe, forse, un rifiuto così netto se la conseguenza ultima di queste opache premesse non fosse, a chiare lettere, la più odiosa delle proposte: proibire, mettere al «bando», come si diceva della armi atomiche.
Tutto il resto va bene, ma questa è una cosa grave. Tanto più grave se si pensa che tutta la battaglia per la legge 194, che è una delle più belle pagine della storia civile italiana, fu imperniata proprio sulla piaga dell’aborto clandestino. Cosa volete creare con il vostro «bando»? Un nuovo mercato di organi? Piombare una pratica umana che non comporta violenza e sfruttamento nell’illegalità è un delitto dalle conseguenze infinite e mostruose. Se questo è pensiero, c’è da sperare che i nostri politici non cambino mai la loro antica abitudine di essere sordi alle voci degli intellettuali e dei movimenti di opinione.
Forse a volte basterebbe soltanto conoscere qualche bambino allevato con amore da coppie che si sono fatte aiutare per farlo venire al mondo