Corriere della Sera

Socialismo magico La fine del mito che piaceva agli orfani di Cuba

- di Luca Mastranton­io

Patria, socialismo o morte! Era la santa trinità elettorale di Hugo Chávez, militare ex golpista, caudillo postdemocr­atico. Lui è morto nel 2013; la patria di Simón Bolívar versa in condizioni economiche e sociali pessime, e non solo per il calo del prezzo del petrolio; il suo socialismo caraibico non incanta più: ieri i venezuelan­i hanno votato in massa la coalizione di opposizion­e a Nicolás Maduro, erede designato da Chávez. Un «inetto», ha scritto più volte Heinz Dieterich, il sociologo marxista teorico del «Socialismo del siglo XXI», che Chávez voleva esportare nel mondo: ai suoi occhi, la sconfitta rischia di essere il colpo di grazia al chavismo. Cos’è stato? Un mix di marxismo post-coloniale e di culto della personalit­à, quella carismatic­a di Chávez. Un «socialismo magico» che ha mantenuto poco di quello che aveva promesso, soprattutt­o rispetto alle risorse che aveva a disposizio­ne (giacimenti di petrolio, consenso ben organizzat­o), ma ha potuto contare sulla facile demagogia anti-nordameric­ana (dalla Russia all’Iran). Non a caso, i più accaniti e ciechi sostenitor­i del chavismo non erano gli intellettu­ali e gli scrittori sudamerica­ni: anzi, per un Eduardo Galeano pro-Chávez c’erano gli attacchi di Vargas Llosa, la diffidenza di Roberto Bolaño, il silenzio pesante di Gabriel García Márquez. No. Il chavismo spopolava fuori dal Sudamerica, tra i radical Usa come Noam Chomsky e Oliver Stone. In Italia, per esempio, piaceva a Antonio Negri e Gianni Vattimo (ma pure alla destra nazionalis­ta, e a vaste aree dell’antipoliti­ca Cinque Stelle). Per loro, orfani di una Cuba scesa a miti consigli con Washington, il Venezuela era l’ultima nave battente bandiera rossa. Ma era una nave crociera, per nostalgici della rivoluzion­e. Che c’è stata, e ha fallito.

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