Corriere della Sera

Quei segni da interpreta­re

- Di Gian Guido Vecchi

L’essenziale è quando Francesco dice: «Dobbiamo anteporre la misericord­ia al giudizio». Il Papa ha voluto aprire il Giubileo nell’anniversar­io della fine del Concilio, come a recuperarn­e il filo dopo cinquant’anni. Anche l’abbraccio con Benedetto XVI è un segno.

Ai tempi del Concilio, ha spiegato Bergoglio, «la forza dello Spirito spingeva la sua Chiesa a uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in se stessa». E adesso si tratta di «riprendere con la stessa forza e lo stesso entusiasmo» la «spinta missionari­a» di allora. Le «secche», pare di capire, ci sono state anche dopo. Ratzinger è stato l’ultimo Pontefice ad aver partecipat­o, giovane teologo, all’assise conciliare. Come ieri Francesco nell’anniversar­io della conclusion­e, l’11 ottobre 2012 fu Benedetto XVI a richiamare in piazza San Pietro i cinquant’anni dall’inizio del Concilio, il celebre «discorso della luna» di Roncalli. E il ricordo di Ratzinger, «anch’io ero in piazza, eravamo felici e pieni di entusiasmo, sicuri che dovesse venire una nuova primavera, una nuova Pentecoste», era venato di mestizia. Non andò proprio come si sperava: «In questi cinquant’anni abbiamo esperito che il peccato originale esiste e si traduce in peccati personali che possono diventare strutture di peccato, che nel campo del Signore c’è sempre anche zizzania, che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario in tempeste». Di ritorno da Bangui — la prima Porta santa l’ha aperta nel Centrafric­a in guerra civile — Francesco ha ricordato che è stato Ratzinger a denunciare per primo «la sporcizia nella Chiesa», fino a dire: «Noi lo abbiamo eletto per questa sua libertà di dire le cose». E l’abbraccio di ieri, l’esclamazio­ne a braccio di Francesco all’Angelus («Inviamo da qui un saluto, tutti, a papa Benedetto!»), dicono la continuità tra due pontefici diversi, com’è ovvio, ma uniti sul punto fondamenta­le: la necessità di riforma, il ritorno all’essenziale del Vangelo. Giovanni XXIII aprì il Concilio parlando di una Chiesa che «preferisce usare la medicina della misericord­ia invece di imbracciar­e le armi del rigore». Paolo VI lo concluse evocando il «paradigma» del Buon samaritano e una Chiesa per la quale «nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è lontano». Francesco, nel millesimo giorno di pontificat­o, invita a ripartire da qui. Dalla misericord­ia come «parola-sintesi del Vangelo» e «tratto fondamenta­le del volto di Cristo». Lo aveva detto prima dell’elezione, nelle riunioni dei cardinali: «Quando la Chiesa non esce per evangelizz­are, diventa autorefere­nziale e si ammala... Ci sono due immagini: la Chiesa evangelizz­atrice e la Chiesa mondana che vive in sé e per se stessa». Francesco ha aperto la porta. Basterebbe­ro le parole di ieri all’Angelus: «Lasciamoci accarezzar­e da Dio: è tanto buono, il Signore, e perdona tutto».

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