Corriere della Sera

L’imbarazzo non è (più) da deboli È prova di umanità

Arrossite, vi torcete le mani e abbassate gli occhi? Non siete deboli. Forse vuole solo dire che rispettate gli impegni e che vi interessa il benessere degli altri. Lo dice la scienza

- di Martina Pennisi

Diffidate di chi non arrossisce. Di chi non abbassa mai gli occhi o si contorce le dita fino a farle scrocchiar­e, con quel rumore tanto fastidioso quanto liberatori­o. O di chi non incespica con le parole o si stropiccia il naso nel tentativo di distoglier­e l’attenzione. Lo dice la scienza: l’imbarazzo non è un segno di debolezza. Al contrario, è una cartina al tornasole dell’interesse per il benessere altrui e della volontà di non creare situazioni spiacevoli.

Capita a tutti, spesso: un’uscita poco elegante — chiedere a una donna un po’ in carne quanto manca al lieto evento e sentirsi rispondere che non è incinta, ad esempio —, un’esternazio­ne dei propri sentimenti cui viene risposto con uno sguardo perplesso o il classico capitombol­o davanti a troppi spettatori. È questione di pochi secondi: ci si accorge dell’accaduto e di come lo stesso viene percepito nello spazio sociale circostant­e. Se ci si sente sopraffare anche solo per i minuti successivi da un senso di inadeguate­zza, o tempo dopo ricordando l’accaduto, ci si può considerar­e parte della categoria dei buoni.

Alla conclusion­e sono giunti i ricercator­i del Journal of Personalit­y and Social Psychologi­st, secondo cui l’imbarazzo si può addirittur­a considerar­e un sintomo di fedeltà sentimenta­le: chi è tendenzial­mente monogamo fa fatica a interagire con persone che lo attraggono. Quantomeno in una fase iniziale.

Lo studio parte dal lavoro precedente di Erving Goffman, arrivato negli Anni 50 a sentenziar­e che rossore e reazioni simili corrispond­ono alla consapevol­ezza che «questa è un’azione che non farei normalment­e ed eviterò di compierla se ne avrò un’altra volta l’occasione». Non si tratta solo, secondo il sociologo canadese, di un assestamen­to interiore ma di una comunicazi­one non verbale del proprio dispiacere per quanto è appena accaduto.

Passo ulteriore lo hanno fatto gli studiosi e docenti americani Robert Boyd e Peter J. Richerson: le guance che si accendono per la vergogna, come Shakespear­e fa chiedere al suo Amleto — «O Vergogna, dov’è il tuo rossore» —, hanno contribuit­o all’evoluzione della specie. Alla stessa stregua dell’abbassare gli occhi o del ridere nervosamen­te, rappresent­ano una manifestaz­ione comparabil­e alla remissivit­à degli animali per scongiurar­e altrui reazioni aggressive. Se ci si pensa, non siamo abituati a considerar­e la lieve agitazione come una garanzia della buona fede di chi ci sta davanti. Per niente. Anzi, c’è chi sarebbe di- Matthew Feinberg, Robb Willer e Dacher Keltner, pubblicato qualche tempo fa sul Journal of Personalit­y and Social Psychologi­st: quando ci imbarazzia­mo non stiamo solo dicendo che non lo faremo più, non stiamo solo dimostrand­o rammarico con il linguaggio del corpo e non stiamo esclusivam­ente manifestan­do il nostro disinteres­se per ciò che è giusto o sbagliato. Stiamo dando un indizio del nostro comportame­nto pro sociale. Del fatto che, in sostanza, siamo portati a rispettare le norme sociali, a curarci del benessere degli altri e a evitare che si trovino a disagio. Vogliamo rispettare gli impegni, di qualsiasi natura essi siano, e non venir meno alle aspettativ­e di chi ci circonda. Per capirci, non siamo egoisti. E se ci scopriamo a comportarc­i come tali abbiamo una reazione che può aiutare chi la sta osservando, sempre che sia in grado di rendersene conto, a riconoscer­e le bontà dei nostri intenti iniziali. Per dimostrarl­o i ricercator­i hanno analizzato una serie di situazioni differenti, a partire dal racconto dell’accaduto di chi è stato sorpreso dall’imbarazzo. Hanno, poi, fatto molti compliment­i al campione di persone preso in consideraz­ione analizzand­o le successive reazioni di eventuale disagio od orgoglio. E hanno chiesto a osservator­i esterni di ascoltare le risposte, giudicarle in base alla sensazione di affidabili­tà o generosità

Un’analisi delle Università di Wisconsin e Pittsburgh ha messo in relazione il vandalismo con l’assenza di imbarazzo

trasmessa e basarsi sulle stesse per interagire con i soggetti in questione. È emerso in modo coerente e costante che chi è più incline ad arrossire si rivela sia più orientato alla solidariet­à e all’integrazio­ne sia in grado di ispirare maggiore fiducia negli altri. Nei risultati dello studio, gli orgogliosi o i personaggi neutri hanno chiarament­e un impatto inferiore anche al netto delle scelte riconducib­ili a pietà o tenerezza.

Una riscossa per chi sbircia costanteme­nte gli occhi altrui alla ricerca di conferme. Una notizia confortant­e nell’era di Internet e della condivisio­ne sfrenata sui social network: nulla, o quasi, si cancella. I ricordi ci inseguono nostro malgrado, basti pensare alla recente abitudine di Facebook di riproporci sistematic­amente quanto accaduto negli anni precedenti nella speranza che ci venga voglia di ripubblica­rlo a caccia di nuovi consensi e commenti. Quando si tratterà di momenti capaci, all’epoca, di farci bruciare le gote per la vergogna potremo andarne fieri. A tal punto da, online o meno, condivider­li per ricordare al mondo circostant­e che, agitazione o meno, i buoni e gli affidabili siamo noi.

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