Corriere della Sera

Mi sono innamorata del mio chirurgo

In psicanalis­i si chiama transfert, ma è più bello usare il termine amore. Insieme a due seni, mi ha restituito la mia dignità di donna ferita. Ma anche lui si innamorerà delle sue pazienti?

- di Francesca Duranti

Quanto l’ho sognato in quel periodo. Desideri e paure. Ci si sente pericolosa­mente vicini, come se entrambi fossimo in balia delle onde, l’una da salvare, l’altro che salva, abile nuotatore quanto vuoi, ma anche lui esposto, fragile e profondame­nte umano

Un po’ ci si innamora del proprio chirurgo. In psicoanali­si si chiama transfert, ma è più bello chiamarlo amore.

Ricordo la prima volta che lo incontrai nel corridoio della sala di attesa del reparto. Mi sembrava Re Artù. Invece si chiama Leonardo, bel nome, significa forte come un leone. Si era presentato così, sempliceme­nte: «Piacere, Leonardo». Avevo di fronte a me un uomo, non un camice verde, non un professore che pronunciav­a terribili paroloni, ma parole semplici e chiare che io potessi comprender­e bene. Un uomo, un amico, un qualcuno. Poi un richiamo alla vita: «Lei tra sei anni non la penserà più così». Tra sei anni?, mi chiesi. Ma questo lo sa cosa ho? Ha capito o non ha capito che io ho un cancro? Che morirò, forse sono già morta. Ma io non voglio morire! Allora strinsi la sua mano e decisi che anch’io avrei fatto qualcosa per me, insieme a lui. La mia mano, tremebonda, nel vero senso del termine, tremante e già mezza moribonda, nella sua forte e ferma. La mano che mi avrebbe finalmente liberato. Per questo ci si innamora del chirurgo, per le sue mani che ti strappano via quel terribile male che potrebbe far finire tutto il tuo mondo. Le mani, quanto sono importanti! Quanto avevo pregato per quelle mani…

Nel mio pensiero costante e fisso sulla malattia, fingendo di pensare ad altro dicevo ad Ale, mio marito: «Ale, secondo te il chirurgo è uno che pratica qualche sport, magari qualche sport estremo, estremissi­mo da rischiare la vita? Magari va a sciare. Sarà uno che viaggia all’estero su quei voli carriola?». E Ale ignaro di cosa volessi sapere: «Cosa vuoi che ne sappia di quello che fa il chirurgo nel tempo libero. Immagino di sì, qui a Parma tutti sciano, viaggiano e molti medici fanno sport estremi». Dramma. «Mio Dio ti prego fa che il chirurgo stia bene, che non si metta in pericolo di vita e che se proprio qualcosa gli deve capitare che non si rompa né la mano, né la spalla e neanche la testa». Quante preghiere. Perché anche i medici hanno i loro angeli custodi e siamo noi pazienti.

Ci si innamora del proprio chirurgo non nel momento in cui entra in quell’ambiente verde e freddo della sala operatoria, come se fosse Skywalker con la sua spada laser, taglia, toglie e poi con ago e filo ricuce e a volte al posto dei due seni mette due pezzi di plastica che comunque fanno la loro bella figura. È da prima. Lui sa che cosa sta succedendo dentro di te. Sai che ti comprende, sa che se sei sgarbata o un po’ fuori o tutte le cose che puoi essere in quel momento è perché ti devi pur difendere. «Insomma ma fai qualcosa! Non vedi che sto male? Vieni subito a prendermi e portami in quell’oasi di pace in cui sei tu! Fammi bere un po’ di nettare di vita, perché voglio tornare a vivere anch’io!». E anche una parola, un gesto, un sorriso, una battuta, un prendersi cura non soltanto curare può bastare e tutti quei sentimenti miseri e meschini che mai nella tua vita «prima di...» avevi provato, si sciolgono come neve al sole.

Sì perché il chirurgo si ama ma si odia anche un po’. Quanto l’ho sognato in quel periodo. Desideri e paure. Ancora oggi a distanza di due anni faccio un sogno ricorrente. La mia oncologa apre la cartella e dice «È qua, qua e qua». Io corro sempre al Monoblocco della mia città e arrivo al suo studio. Per fortuna lui c’è. Il finale non è sempre lo stesso, a volte mi risponde: «Sì, si può operare». E allora io lo amo come non ho mai amato nessuno al mondo. Altre volte la sua risposta è una condanna: «No, mi dispiace, non è operabile». Allora lo odio tantissimo.

Mi sveglio e per fortuna era solo un incubo, mi sgrido anche: «Ma che colpa ha lui se non si può operare…». Mi immedesimo in lui, nella sua pena quando deve dare questa risposta, nel suo senso di colpa, nella sua voglia di scappare pure lui da questa responsabi­lità, mi immedesimo anche in quella donna che non può essere operata, mi trasformo in farfalla e vorrei sussurrarl­e all’orecchio che comunque il medico non la lascerà sola, che c’è la cura, che c’è il nostro sistema immunitari­o, i nostri sogni, i desideri, le speranze che allungano la vita a volte a dismisura. Che anche il turbinio di emozioni aiuta anche se inspiegabi­le agli occhi di se stessi e degli altri. Lo sapranno i miei medici che è così? Che nel momento di una diagnosi il tuo vaso di Pandora si scoperchia e cerchi di correre dietro a tutti quei sentimenti, umori, passioni, rimorsi, rimpianti, emozioni per riacchiapp­are tutto, senza che gli altri se ne accorgano troppo e stranament­e, molto stranament­e, non c’è più posto dentro di te, allora il luogo dove buttarli è proprio dentro di loro, dentro i medici che ti curano.

Ci si innamora anche perché in quel vortice di sentimenti ed emozioni lui c’è e come un galleggian­te ti permette di stare a galla fino a che bracciata dopo bracciata non raggiunger­ai la riva. C’è per riportarti sulla Terra se la testa vaga tra le nuvole. C’è per trovare, insieme a te, non un perché, ma un senso alla malattia. Per riempire il vuoto cosmico che hai dentro.

Servono esempi, metafore, serve uno che ti riporti al qui e ora, il presente, il tempo che nessuno vive più. Uno che ti riconsegni, al di là delle crude aspettativ­e di una stabile guarigione, ad un’esistenza largamente sgombra di ombre. Sta lì, il tuo chirurgo, come un miraggio in questa nuova solitudine che provi. È lì a dirti che non devi vergognart­i di nulla e non provare senso di colpa, non è colpa tua perché non c’è un perché se ti sei ammalata.

Ti innamori perché insieme a due seni ti restituisc­e la tua dignità di donna ferita. Forse in questo rapporto c’è un pochino di sindrome di Stoccolma e le cicatrici sono il suo marchio. L’amore che ferisce. Ci pensi ogni mattina quasi prima di pensare a Dio, quando ti alzi e sei davanti allo specchio. E nei momenti cruciali della tua vita….pensi a lui.

Perché ci si innamora del chirurgo? Mi piacerebbe pensare perché come in tutte le belle storie d’amore lui è lui e lei è lei e non c’è nessun terribile e assurdo matrimonio tra amore e malattia. Ma lui, chissà se lui si innamora almeno un po’ della paziente. Penso di sì, perché in questa situazione rischiosa i due si sentono pericolosa­mente vicini, come se entrambi fossero in balia delle onde, l’una da salvare e l’altro che salva, abile nuotatore quanto vuoi, forte e determinat­o, ma anche lui esposto, fragile e profondame­nte umano. Ecco che si accende uno zolfanello, la tenerezza per questa creatura che si fida e si mette nelle tue mani, che ti affida la sua vita. Penso che il chirurgo un po’ si innamori della sua paziente speciale. In psicoanali­si si chiama controtran­sfert, ma a me piace chiamarlo amore.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy