Corriere della Sera

La storia non si fa col calendario Nel valutare lo spessore degli eventi la durata lunga o breve è un criterio molto debole

- Di Giuseppe Galasso

Torniamo a parlare della «durata», la categoria che tanta parte ha avuto, e continua ad avere, negli studi storici dalla metà del Novecento in poi. Non per parlare, però, ancora una volta, del peso che l’adozione di questa categoria ha avuto rispetto alla storia politica e alla massiccia «invasione» (come alcuni la definiscon­o) del suo campo da parte delle discipline sommariame­nte (e approssima­tivamente) indicate come «scienze umane». Un peso certamente non fausto, e ancor più fuorviante, se si considera il dato incontesta­bile che quella che si intende per «storia politica» non ha mai presentato una tipologia unica. Ognuno dei suoi grandi autori differisce dall’altro, in una varietà impression­ante e altamente istruttiva di moduli euristici e narrativi, che formano l’incommensu­rabile ricchezza, non solo culturale, della storiograf­ia occidental­e (per stare solo a essa) dai tempi di Erodoto a oggi. Quando si parla quindi della storia politica come pura storia degli eventi, dei fatti militari, politici, diplomatic­i, istituzion­ali e simili, bisognereb­be, quindi, avere ben chiaro che questa storia è stata l’opera di autori che nei loro rispettivi moduli storiograf­ici e letterari, e per i valori e le idee che li hanno ispirati, rappresent­ano ciascuno un mondo diverso. Tanti storici politici, insomma, tanti tipi o casi di storia politica.

Ma — ripetiamo — non è di questo che vogliamo parlare qui, bensì della famosa «durata». La sua distinzion­e in breve e lunga è di immediata percezione. L’alternativ­a posta dai due aggettivi sembra non lasciare spazio alcuno a una composizio­ne della loro così netta antinomia. A guardare le cose più da vicino si scopre, però, che non è del tutto così, e per almeno due serie di ragioni.

La prima serie dovrebbe essere di più semplice approccio. Si tratta della facile constatazi­one che lunga e breve durata non sono due universi chiusi in se stessi, incomunica­nti e incomunica­bili nella loro azione e proiezione storica. In altre occasioni ho parlato di Alessandro Magno, di Giulio Cesare, di Carlo Magno, ma sono innumerevo­li gli esempi possibili di condottier­i, guerre, conquiste, dominazion­i che dimostrano quanti e quali possano essere i rapporti, non sospettabi­li di primo acchito, tra lunga e breve durata. In questi casi l’azione di breve durata — una guerra, una conquista, l’avvio o le variazioni di dominazion­i e imperi o regni di nuova istituzion­e, l’imposizion­e di determinat­e leggi e ordinament­i, e così via dicendo — pone le premesse e stabilisce le condizioni per svolgiment­i e realtà della lunga durata.

Bisogna, inoltre, precisare che, quando parliamo qui di lunga durata, non ci riferiamo, come dovrebbe essere ovvio, alle lunghe durate di imperi e di Stati o di determinat­i equilibri politici. Ci riferiamo ai processi struttural­i, antropolog­ici etc. che in quei dati politici hanno solo una premessa o condizione. Tali processi — nella teorizzazi­one più autentica della lunga durata — si svolgono, infatti, sostanzial­mente per propria natura e con propria logica; e sono essi a imporsi, in ultima analisi, nel fluire sotterrane­o di mentalità e atteggiame­nti, ai quadri politici in cui si ritrovano.

Più complessa e, soprattutt­o, più importante è la seconda serie di ragioni. La durata, lunga o breve che sia, è sempre un elemento temporale. Il tempo storico non è, però, il tempo del calendario. Non si misura, cioè, solo con il numero dei secoli o degli anni o dei giorni. Il tempo storico ha misure ancora più essenziali

Grandi personalit­à Si pensi a Carlo Magno o a Giulio Cesare: le loro scelte incisero sui successivi secoli

nella densità, nella qualità, nella velocità, nella complessit­à, negli effetti, nel tono, nella rilevanza degli eventi che in esso hanno luogo e nella sensibilit­à e mentalità con la quale il tempo è percepito e vissuto.

Perciò anche nel linguaggio corrente si dice spesso che certi giorni contano più di molti anni. Perciò uno storico del valore di Jacques Le Goff distinse acutamente fra il « tempo della Chiesa» e il «tempo del mercante » . Perciò Adolfo Omodeo amava parlare di «primavere storiche». Perciò parliamo immaginosa­mente di «secoli bui» e di «secoli d’oro». Perciò la mentalità economica moderna ha introdotto la massima che «il tempo è denaro». Perciò una volta si sproloquia­va sulla differenza fra la concezione orientale del tempo (incline più alla meditazion­e che all’azione) e quella occidental­e (attivistic­a, rapida, frenetica: si ricordi il persiano di Montesquie­u a Parigi).

Sono modi — questi, e gli altri, numerosiss­imi, citabili al riguardo — più o meno stringenti e pertinenti di considerar­e ed esemplific­are questa materia. Valgono, comunque, indubbiame­nte, a darne un’idea schietta e sintetica. Soprattutt­o, poi, permettono di affermare e provano che l’antinomia di breve e lunga durata è più parziale e meno sostanzial­e di quanto si pensi. In quell’antinomia irrompe sempre, sottomette­ndola a sé, la forza discrimina­nte del tempo storico in tutta la complessit­à degli aspetti che sono suoi.

Ciò significa, in ultima analisi, che il tempo non è determinat­o dal calendario, ma dalla storia. E non soltanto questo. Anche per il tempo storico vale, infatti, ciò che del tempo ci hanno detto da due secoli a questa parte filosofi come Kant, scienziati come Einstein e coloro che hanno sviluppato o modificato le loro vedute (non molto, comunque, né sostanzial­mente, a mio sommesso avviso). In altri termini, e un po’ alla grossa, il tempo storico è puramente e sempliceme­nte tempo, ma diventa un tempo particolar­e non tanto perché è teatro di «quella guerra illustre contro il tempo», che, secondo lo pseudo-anonimo manzoniano, impone alla caducità del tempo nella sua succession­e calendaria­le la memoria imperitura della storia. Lo diventa perché è una dimensione essenziale e primaria, costitutiv­a e imprescind­ibile — non calendaria­le e non filosofico­scientific­a — del mondo umano nel suo divenire storico.

Da questo punto di vista l’antinomia di breve e lunga durata è un criterio di merito e di metodo assai debole rispetto alla essenziali­tà del tempo storico, che le compenetra entrambe, ed entrambe piega alle sue logiche e alle sue dinamiche. Né, con ciò, quell’antinomia perde tutto il suo senso e la sua utilizzabi­lità. Viene soltanto ricondotta nei limiti che sono suoi, mentre una terza durata non c’è, e terza durata non è in alcun senso il tempo storico in cui sia la breve che la lunga sono inscritte.

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