«La Carmen di Bizet Un’eroina perdente come lo è un clown»
Il regista Finzi Pasca inaugura il San Carlo Domani il debutto con il presidente Mattarella
La sorpresa della Carmen che domenica con Zubin Mehta apre la stagione del San Carlo di Napoli, davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sta nelle quindicimila lampadine di cui si è servito il cinquantunenne regista svizzero Daniele Finzi Pasca, che viene dal mondo del circo.
Negli ultimi due atti le lampadine, grazie ai sensori, reagiranno alle frequenze del canto e daranno una luce più intensa quando le note saliranno in alto, più debole con i suoni più flebili. Il gioco di chiaroscuri illuminerà la sala in cui siederà il capo dello Stato.
«È una scenografia dove le cose si accendono e si spengono», dice il regista. Ha creato una Siviglia onirica. Uno spettacolo giocato sulla luce («vengo da una famiglia di fotografi: la prima cosa a cui penso è la luce»), le lampadine creano raffinate architetture moresche e zone d’ombra, trasportano dal clima festoso a quello lunare, mentre delle barre al neon diventano transenne, corde, ring.
Ogni atto, come se fossero colpi di pennello, ha un colore: giallo, bianco, nero, rosso (d’altra parte lo stesso Bizet divide la sua opera in quadri!). Il regista contamina «il teatro della creazione con un linguaggio clownesco», consapevole che il rischio del suo codice estetico è l’esteriorità decorativa.
Quanto ai due protagonisti, dice di averne messo in luce (è proprio il caso di dire, e poi è Interpreti Il mezzosoprano María José Montiel e il tenore Brian Jagde nell’opera la stessa Carmen che parla di «anelli lucenti») le fragilità: Don José (Brian Jagde) «è un uomo che si fa spostare dal vento, in balìa delle intemperie», affascinato dall’effervescenza di fuoco della protagonista (Maria José Montiel). Solo il coro di voci bianche che entra a passo di marcia se la spassa e fa marameo con la mano sul naso.
Dimenticate la Carmen stregonesca posseduta dai poteri gitani, zingareschi. Qui è «un’eroina perdente, come lo sono i grandi clown». E finalmente il regista pronuncia la parola magica del suo vocabolario: clown.
Perché lui appartiene a quel mondo. E Napoli riscopre la sua recente vocazione circense, dopo l’Aida fatta di corde che, nel 2013, mise in scena Franco Dragone, uno dei fondatori del Cirque du Soleil, dove si è fatto strada Finzi Pasca.
Avvezzo alla spettacolarità (ha diretto tre cerimonie di giochi olimpici invernali), è uomo di cultura che teme le semplificazioni: «Clown è un termine ampio che in Italia abbraccia la Commedia dell’Arte e Dario Fo»; ricorda l’esperienza con Grotowski, afferma che il circo, come lo intende lui, è teatro di ricerca.
Nel 1983 finì in prigione in Svizzera: «Non volevo partire militare, a quel tempo non esisteva il servizio civile e l’obiezione di coscienza. C’è qualcosa che ti resta dentro, ho spesso voluto portare i miei spettacoli nelle carceri, ho curato progetti umanitari a Calcutta, ho ideato in cella Icaro, spettacolo per uno spettatore soltanto: l’ho portato in giro nel mondo in oltre mille repliche. Scelgo uno spettatore in platea e a lui racconto la storia, rendendolo partecipe di un viaggio. Non ci vuole un genio se, dietro le sbarre, pensi alla storia di una fuga, anche se lo spettacolo è più una riflessione sulla malattia che ti può imprigionare, bloccarti, incatenarti a un letto».
Certo la vita è strana. È la seconda regia di Daniele Finzi Pasca, l’uomo del circo al San Carlo: il suo debutto fu con Pagliacci.
Ha creato una Siviglia onirica È uno spettacolo giocato con migliaia di lampadine