Corriere della Sera

SALTO NEL PASSATO CON MILLE COMMI

- Di Dario Di Vico

La legge di Stabilità sta ripercorre­ndo le orme del passato: l’opera di taglia-e-cuci concordata tra governo e Parlamento ha partorito la cifra di 1.000 commi. Quello che manca è una visione della politica economica.

Schiavi delle abitudini abbiamo ricomincia­to a chiamarla «finanziari­a» e il motivo è fin troppo semplice: la legge di Stabilità che avrebbe dovuto innovare il modo in cui i governi fanno politica economica sta ripercorre­ndo le orme del passato, al punto che l’opera di taglia-ecuci concordata tra governo e Parlamento ha partorito la ragguardev­ole cifra di 1.000 commi. Si può dire tranquilla­mente che non c’è ambito della vita economica e civile del Paese che non sia stato toccato, lo dimostra il fatto che persino la compravend­ita dei calciatori ha subito un restyling normativo. Diamo pure per scontato che molte novità introdotte fossero ampiamente necessarie e che per velocizzar­e i tempi della decisione alla fine la soluzione vincente sia sempre quella di imbarcare tutti i commi su un container legislativ­o, è inevitabil­e però che alla fine l’impression­e sia quella di un vestito d’Arlecchino. Tanti colori e tante pezze al posto di un disegno coerente. Per ovviare a questo limite Matteo Renzi avrebbe dovuto per una volta dar retta a Giuseppe De Rita che gli aveva consigliat­o in tempi non sospetti di affiancare all’omnibus della Stabilità — che, sia detto per inciso, alla fine tocca i 35 miliardi — una sorta di nota aggiuntiva, un documento di politica economica che riassumess­e l’essenziale e fosse un strumento agile di comunicazi­one sia con la comunità degli addetti ai lavori sia con il «popolo». Se poi quella nota, oltre ad assolvere a un basilare compito pedagogico, avesse contenuto anche una visione di medio termine della politica economica dell’Italia, non sarebbe guastato e avrebbe messo al riparo il governo dal dover partecipar­e alla guerriglia delle cifre e alle polemiche costruite su singole misure. Aggiungo che una messa a punto della «visione» tutto sommato sarebbe stata giustifica­ta anche dalle discontinu­ità di carattere internazio­nale che hanno interessat­o il Paese dal momento dell’approvazio­ne della Stabilità in Consiglio dei ministri a oggi.

Ai blocchi di partenza la legge in approvazio­ne al Parlamento conteneva un messaggio netto di taglio delle tasse a cominciare da quella sulla prima casa. Dietro questa scelta — contestata dagli europeisti ortodossi — il governo produsse in qualche maniera un’analisi dei nodi dello sviluppo italiano e della necessità di ristabilir­e un clima di normalità post emergenza cominciand­o a tagliare una tassazione così ampiamente impopolare come quella sull’abitazione. I più attenti obiettaron­o che se si voleva davvero rimettere in circolo la ricchezza immobiliar­e incagliata l’intervento avrebbe dovuto essere più ambizioso e a largo raggio. Per farla breve si era comunque aperta una finestra di riflession­e tutt’altro che banale e orientata a produrre novità importanti nel rapporto tra contribuen­ti ed economia reale. Oggi siamo arrivati al traguardo e di quella discussion­e è rimasto poco o niente. Il taglio ci sarà ma avviene in un contesto molto meno orientato alla riscossa di quanto fosse allora, per di più con un’agenda mediatica dominata dal tema del fallimento delle banche di territorio e delle conseguenz­e sui risparmiat­ori. Francament­e tutto ciò non rappresent­a il viatico migliore per un anno come il 2016 che nelle stime del governo dovrebbe portare il Pil all’1,6%, ovvero dovrebbe farci uscire dal regime di ripresa debole e inaugurare una fase di energica riscossa dell’economia reale.

Un’ultima ragione militerebb­e, poi, a favore della stesura di una Nota aggiuntiva. In un documento più ponderato il governo avrebbe potuto trovare il modo di tentare di conciliare e magari spiegare una contraddiz­ione che la Stabilità si porta dietro come un marchio di fabbrica. Quella di finanziare il vestito di Arlecchino con una manovra sostanzial­mente condotta in deficit — e per questo motivo sottoposta al giudizio finale di Bruxelles calendariz­zato per la prossima primavera — ma di non riuscire assolutame­nte a muovere la complessa macchina della spending review. È una contraddiz­ione che pesa e che non può essere esorcizzat­a con una battuta sui lampioni di Carlo Cottarelli.

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