Corriere della Sera

Nel «ridotto della Valtellina», aspettando (invano) Mussolini

- di Dino Messina

Èpossibile, a 70 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, leggere (e apprezzare) senza pregiudizi la testimonia­nza di un ragazzo di Salò che a 19 anni scelse di stare dalla parte sbagliata? La risposta è doppiament­e affermativ­a per Io fascista di Giorgio Pisanò (1924-1997), che il Saggiatore ripropone a 18 anni dalla prima edizione e dalla morte dell’autore. Il libro, che Pisanò aveva scritto e tenuto nel cassetto nel 1964, uscì pochi mesi dopo lo storico discorso di insediamen­to da presidente della Camera di Luciano Violante, uomo di sinistra che nel 1996 invitò a capire le ragioni dei ragazzi e delle ragazze che dopo l’8 settembre si erano schierarti in buona fede, per l’educazione ricevuta, per mantenere la parola data, con i fascisti. L’intervento di Violante contribuì a rendere più sereno e obiettivo il discorso pubblico italiano.

Il secondo motivo per cui bisogna leggere Io fascista è il fatto che dalle ricerche di Pisanò, contenute in minima parte in questo volume che è sostanzial­mente una testimonia­nza autobiogra­fica, sono partiti una serie di autori meritevoli di aver sdoganato un «non detto» della storia italiana. Lo stesso Giampaolo Pansa, autore del Sangue dei vinti e di una fortunata serie di volumi sulla guerra civile italiana, ha riconosciu­to pubblicame­nte il suo debito verso Pisanò.

Il racconto di Io fascista ci introduce subito nel capitolo cruciale e conclusivo della storia di Salò: la formazione, nel famoso «ridotto della Valtellina», di un gruppo di fedelissim­i che avrebbe atteso Mussolini fin dopo la sua morte a Giulino di Mezzegra. Poche centinaia di illusi (e fanatici) pronti a combattere sino all’ultimo uomo. Quei giovani che avevano deciso di resistere non immaginava­no e non volevano credere, neppure quando qualcuno glielo raccontò, che il loro idolo, anziché cercare a viso scoperto «la bella morte», secondo l’espression­e che dà il titolo al romanzo di Carlo Mazzantini, era stato catturato mentre, travestito da soldato tedesco, cercava di raggiunger­e la Svizzera.

Durante la detenzione a Sondrio Pisanò fu testimone dei processi sommari istruiti da improvvisa­ti «tribunali del popolo» a carico dei repubblich­ini ritenuti più feroci: la convocazio­ne per l’interrogat­orio significav­a condanna a morte. I prigionier­i di Sondrio accolsero come salvatori i carabinier­i, che finalmente portarono un po’ di regole in quei giorni di vendetta.

All’autore di Io fascista, che pure non aveva commesso crimini, toccarono 18 mesi di prigionia. Da Sondrio a San Vittore, da Terni a Spoleto, a Firenze, Pistoia e al campo 370 Pow di Rimini, una testimonia­nza dalla parte dei vinti documentat­a con una prosa fluida (Pisanò fu nel dopoguerra giornalist­a, oltre che per vent’anni parlamenta­re del Msi) e con foto scattate grazie a una macchina fotografic­a nascosta in una tasca segreta.

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