I CITTADINI E LA SFIDA DEI VALORI
Sostenere che il presidente della Repubblica ha fatto un discorso poco politico, significherebbe ridurre la politica alla sua dimensione parlamentare e istituzionale. L’impressione è che nel suo saluto televisivo di fine anno agli italiani, Sergio Mattarella abbia piuttosto indicato le vere frontiere da percorrere e attraversare; e i veri valori da conquistare e da salvaguardare.
Lavoro, tasse, corruzione, immigrazione e terrorismo sono le priorità sulle quali non solo un governo ma una nazione puntellano la propria legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica; e la propria credibilità sul piano internazionale. Il capo dello Stato le ha affrontate con la semplicità e l’equilibrio che i più gli riconoscono, rinunciando a mettersi dietro alla scrivania presidenziale che forse intimidisce anche lui; e con qualche impaccio in meno rispetto a quello che gli viene di solito attribuito.
Di riforme costituzionali ha parlato di sfuggita, e anche sul governo non si è soffermato. Eppure ha dato atto implicitamente a quanti, nelle istituzioni, hanno avuto il merito di arginare una china pericolosa, contribuendo «a tenere in piedi l’economia italiana»; e offrendo qualche timido elemento di fiducia sul futuro. Può darsi che a qualcuno sia parso un approccio «extraparlamentare». Se tale è sembrato, non lo è tuttavia nel senso polemico e antisistema che si dà a questo aggettivo.
La linea Mattarella ha indicato quale Paese intende promuovere
Mattarella sente acutamente l’esigenza di ricalibrare in primo luogo i confini culturali con i quali l’Italia sarà costretta a misurarsi e sarà misurata nei prossimi anni. E sa che la stessa democrazia può ritrovare spinta solo se riesce a intercettare malumori e inquietudini espressi fuori e spesso contro la nomenklatura dei partiti e i suoi eletti. Quando parla di tasse eccessive e insieme ammonisce a pagarle per consentire che si abbassino, sfida la cultura dominante dell’evasione fiscale.
Allo stesso modo, quando addita corruttori e corrotti, e li contrappone non solo a un’opinione pubblica che esige onestà ma anche ai valori della Costituzione, accredita una saldatura virtuosa tra Stato e popolo. Non sono accostamenti né facili né scontati. Raccontare l’immigrazione, come ha fatto l’altra sera Mattarella, senza concedere nulla ad una narrativa imbottita di luoghi comuni e larvatamente razzista, significa accettare una sfida tutt’altro che popolare.
Raffigurare lo straniero che vive e lavora in Italia «in larghissima parte» rispettoso e onesto, «versando alle casse dello Stato più di quanto non ne riceva», equivale a riaffermare una verità che molti non vogliono vedere; così come, obnubilati dalla paura, si tende a non accettare l’idea che l’immigrazione «durerà a lungo». Sono semi di una cultura democratica che non tutta l’Italia è disposta a ingoiare. Eppure, l’alternativa al governo dei fenomeni migratori è quella di subirli, illudendosi di esorcizzarli con riflessi xenofobi.
Mattarella non ha velato le divergenze di opinione, né le ha diplomatizzate. Ma ha detto quale Paese cercherà di rappresentare e promuovere nei suoi sette anni al Quirinale: insistendo anche, attraverso la citazione di alcune donnesimbolo, sul ruolo crescente che naturalmente dovranno assumere. Vuole ricreare quella che, declinando laicamente la «misericordia» papale, il capo dello Stato definisce convivenza civile.
Sono un sostantivo e un aggettivo poco frequentati, ultimamente. L’impatto dell’eversione di matrice fondamentalista rappresenta un’ipoteca seria su ogni risposta ragionevole e coraggiosa. Ricordare la necessità di non farsi ricattare da chi scommette tutto sul panico aiuta a capire che cosa significa essere cittadini di un’Italia e di un’Europa insidiate e spaventate dall’incertezza.