LO STRANO SOGNO DELLA PIOGGIA IN INVERNO PER LIBERARCI L’ANIMA DALLA PESTE DELLO SMOG
Invece di inquietarsi per i goccioloni impetuosi che all’improvviso cadono dal cielo, Renzo Tramaglino «ci sguazzava dentro»: è la fine della peste. Alessandro Manzoni spiegava così, usando il più antico dei simboli, l’acqua, il desiderio di una società che riconosce l’urgenza di essere purificata. Alla fine dei Promessi sposi, la pioggia invocata finalmente scroscia e libera dal male. Scriveva Manzoni: «L’acqua portava via il contagio». La si invocava perché cancellasse le ferite di un morbo. Oggi si spera nel maltempo perché purifichi dai peccati attuali: lo smog, lo spreco d’energie. Il paradosso attuale è in sintonia con l’atteggiamento che si ha davanti a tutti i flagelli: i flagelli per essere debellati richiedono la disposizione a compiere un atto quasi innaturale. Per la prima volta, infatti, vogliamo un sole freddo, preghiamo che il cielo sia grigio, chiediamo al meteo giornate nere. I sogni si sono capovolti. Non vogliamo la neve per sciare o la pioggia per l’estate riarsa, ma qualsiasi cosa porti via lo smog, mondi l’aria. Ogni diluvio universale racconta la storia di una colpa associata a una nuova rinascita, sottintende un castigo e insieme la promessa di ripristinare un mondo naturale e incontaminato. Anche nella Gerusalemme liberata di Tasso, arsura e siccità, attorno alla città, sono una delle tante prove da superare e la pioggia versata dalla «destra del Ciel pietosa» è pura grazia che annuncia la sconfitta del male (i soldati cristiani ci si riempiranno gli elmi gridando di gioia). Non facciamoci troppe illusioni, però, la pioggia non precede solo il lieto fine: nel film Blade Runner piove sempre, ma l’acqua è acida e non più salvifica. Ora la pioggia ci andrà comunque bene. In futuro però dipenderà da noi se ci troveremo così disperati da sognare la pioggia in inverno appestati dallo smog. Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it e nel 2015 si è scampato (almeno per ora) il rischio della Grexit — l’uscita della Grecia dall’euro — il 2016 si annuncia come l’anno della possibile Brexit — l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Non sembra esserci tregua per l’Europa, come suggeriscono i risultati delle recenti elezioni in Polonia, Spagna e Portogallo. La sua esistenza viene costantemente rimessa in discussione; «se non cambia, è destinata a sbriciolarsi», si sente spesso ripetere.
Vale forse la pena riflettere su una visione alternativa, diametralmente opposta. Chi è in crisi non è tanto l’Europa, in quanto progetto costitutivo, ma piuttosto gli Stati nazionali che non sono in grado da un lato di far fronte da soli ai processi di globalizzazione, dall’altro di condividere la loro sovranità su tematiche fondamentali, come l’emigrazione, la lotta al terrorismo o la gestione delle crisi finanziarie, per riuscire a far svolgere all’Europa il ruolo che le spetta nel sistema mondiale.
I greci hanno deciso alla fine di non uscire dall’euro, anche se ne hanno avuto la possibilità, perché si sono accorti che nonostante le enormi difficoltà connesse alla partecipazione alla moneta unica e gli effetti recessivi dei programmi di aggiustamento, la situazione sarebbe stata peggiore fuori. Riformare il sistema economico e risanare le finanze pubbliche senza l’aiuto dei partner sarebbe stato molto più difficile.
Lo stesso problema, anche se in altri termini, si porrà nei prossimi mesi per i cittadini britannici. Certo, l’assetto istituzionale del Regno Unito ha una solidità e tradizione ben diversa da quella ellenica, e potrebbe consentirgli di prosperare anche fuori dell’Unione. Il centro finanziario di Londra dovrebbe mantenere la sua competitività globale se le forze Realismo Gli ellenici hanno deciso di non uscire perché risanare le finanze sarebbe stato difficile
politiche britanniche continueranno a difenderne gli interessi con una tenacia e una coesione superiore al desiderio degli altri Paesi europei di non concedere sconti a chi esce. Ma come hanno ripetuto tutti i grandi leader mondiali, da Barack Obama a Xi Jinpin, al Premier David Cameron, l’Inghilterra fuori dall’Unione perderebbe influenza economica e politica.
Un’eventuale decisione di uscire dall’Unione Europea aprirebbe un lungo periodo di incertezza, durante il quale dovrebbero essere rinegoziati migliaia di accordi sostitutivi al mercato unico, che dovranno regolare i rapporti commerciali, finanziari e politici tra l’Europa e il Regno Unito. Anche se si vorrà evitare di erigere barriere tariffarie dannose per entrambe le parti, potrebbero emergere contenziosi complessi, che richiederanno anni per essere risolti. Una tale incertezza tenderebbe a scoraggiare gli investitori chi volessero usare il Regno Unito come base per esportare verso il Continente. L’economia inglese ne soffrirebbe per anni.
Più grave ancora, l’uscita dall’Unione rischierebbe di minare l’integrità stessa del Paese. Seconda battuta Se perdesse il fronte euroscettico la Scozia potrebbe chiedere un’altra consultazione
Come già hanno pubblicamente dichiarato i leader indipendentisti scozzesi, se l’esito del referendum sulla Brexit fosse molto diverso in Scozia rispetto alle altre parti del Regno Unito, verrebbe immediatamente richiesto un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese, dopo quello fallito di misura nel settembre 2014. L’esito questa volta potrebbe essere favorevole, data la dichiarata maggioranza pro-europea della sua popolazione e la prospettiva di adesione all’Unione Europea. Il Regno Uni- to uscirebbe così dall’Unione ma perderebbe la Scozia, con le sue basi navali atomiche e le sue ricchezze petrolifere.
Le tematiche « razionali » non sono ancora entrate appieno nel dibattito politico inglese, che è finora stato caratterizzato soprattutto dalle accuse populistiche tipicamente rivolte all’Europa di essere la causa di tutti i mali. Ma il pragmatismo storico dei britannici riporterà ben presto le questioni più fondamentali al centro del dibattito. A quel punto emergerà ben chiaro il dilemma che attanaglia tutte le democrazie europee. Com’è possibile, in un mondo sempre più integrato, esercitare un potere di governo democratico che sia efficace a livello nazionale? Come spiega bene Dani Rodrick, nel suo saggio La globalizzazione intelligente (Laterza 2011), il dilemma non è facilmente risolvibile: o si riduce il grado di integrazione economica e si mette un freno alla globalizzazione — cosa non facile da realizzare in modo unilaterale — o si procede verso una maggiore integrazione politica a livello internazionale, in particolare in Europa.
Il problema è che una maggiore integrazione politica dell’Europa non si ottiene solo chiedendola a viva voce ma lavorando intensamente per trovare soluzioni comuni e, soprattutto, accettando di decidere insieme, anche quando si rischia di essere messi in minoranza, come in tutti i sistemi democratici. Se non si riesce a progredire la colpa non è tanto dell’Europa, quanto di chi non ha capito il concetto.