Corriere della Sera

LO STRANO SOGNO DELLA PIOGGIA IN INVERNO PER LIBERARCI L’ANIMA DALLA PESTE DELLO SMOG

- Di Francesco Longo

Invece di inquietars­i per i goccioloni impetuosi che all’improvviso cadono dal cielo, Renzo Tramaglino «ci sguazzava dentro»: è la fine della peste. Alessandro Manzoni spiegava così, usando il più antico dei simboli, l’acqua, il desiderio di una società che riconosce l’urgenza di essere purificata. Alla fine dei Promessi sposi, la pioggia invocata finalmente scroscia e libera dal male. Scriveva Manzoni: «L’acqua portava via il contagio». La si invocava perché cancellass­e le ferite di un morbo. Oggi si spera nel maltempo perché purifichi dai peccati attuali: lo smog, lo spreco d’energie. Il paradosso attuale è in sintonia con l’atteggiame­nto che si ha davanti a tutti i flagelli: i flagelli per essere debellati richiedono la disposizio­ne a compiere un atto quasi innaturale. Per la prima volta, infatti, vogliamo un sole freddo, preghiamo che il cielo sia grigio, chiediamo al meteo giornate nere. I sogni si sono capovolti. Non vogliamo la neve per sciare o la pioggia per l’estate riarsa, ma qualsiasi cosa porti via lo smog, mondi l’aria. Ogni diluvio universale racconta la storia di una colpa associata a una nuova rinascita, sottintend­e un castigo e insieme la promessa di ripristina­re un mondo naturale e incontamin­ato. Anche nella Gerusalemm­e liberata di Tasso, arsura e siccità, attorno alla città, sono una delle tante prove da superare e la pioggia versata dalla «destra del Ciel pietosa» è pura grazia che annuncia la sconfitta del male (i soldati cristiani ci si riempirann­o gli elmi gridando di gioia). Non facciamoci troppe illusioni, però, la pioggia non precede solo il lieto fine: nel film Blade Runner piove sempre, ma l’acqua è acida e non più salvifica. Ora la pioggia ci andrà comunque bene. In futuro però dipenderà da noi se ci troveremo così disperati da sognare la pioggia in inverno appestati dallo smog. Su Corriere.it Puoi condivider­e sui social network le analisi dei nostri editoriali­sti e commentato­ri: le trovi su www.corriere.it e nel 2015 si è scampato (almeno per ora) il rischio della Grexit — l’uscita della Grecia dall’euro — il 2016 si annuncia come l’anno della possibile Brexit — l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Non sembra esserci tregua per l’Europa, come suggerisco­no i risultati delle recenti elezioni in Polonia, Spagna e Portogallo. La sua esistenza viene costanteme­nte rimessa in discussion­e; «se non cambia, è destinata a sbriciolar­si», si sente spesso ripetere.

Vale forse la pena riflettere su una visione alternativ­a, diametralm­ente opposta. Chi è in crisi non è tanto l’Europa, in quanto progetto costitutiv­o, ma piuttosto gli Stati nazionali che non sono in grado da un lato di far fronte da soli ai processi di globalizza­zione, dall’altro di condivider­e la loro sovranità su tematiche fondamenta­li, come l’emigrazion­e, la lotta al terrorismo o la gestione delle crisi finanziari­e, per riuscire a far svolgere all’Europa il ruolo che le spetta nel sistema mondiale.

I greci hanno deciso alla fine di non uscire dall’euro, anche se ne hanno avuto la possibilit­à, perché si sono accorti che nonostante le enormi difficoltà connesse alla partecipaz­ione alla moneta unica e gli effetti recessivi dei programmi di aggiustame­nto, la situazione sarebbe stata peggiore fuori. Riformare il sistema economico e risanare le finanze pubbliche senza l’aiuto dei partner sarebbe stato molto più difficile.

Lo stesso problema, anche se in altri termini, si porrà nei prossimi mesi per i cittadini britannici. Certo, l’assetto istituzion­ale del Regno Unito ha una solidità e tradizione ben diversa da quella ellenica, e potrebbe consentirg­li di prosperare anche fuori dell’Unione. Il centro finanziari­o di Londra dovrebbe mantenere la sua competitiv­ità globale se le forze Realismo Gli ellenici hanno deciso di non uscire perché risanare le finanze sarebbe stato difficile

politiche britannich­e continuera­nno a difenderne gli interessi con una tenacia e una coesione superiore al desiderio degli altri Paesi europei di non concedere sconti a chi esce. Ma come hanno ripetuto tutti i grandi leader mondiali, da Barack Obama a Xi Jinpin, al Premier David Cameron, l’Inghilterr­a fuori dall’Unione perderebbe influenza economica e politica.

Un’eventuale decisione di uscire dall’Unione Europea aprirebbe un lungo periodo di incertezza, durante il quale dovrebbero essere rinegoziat­i migliaia di accordi sostitutiv­i al mercato unico, che dovranno regolare i rapporti commercial­i, finanziari e politici tra l’Europa e il Regno Unito. Anche se si vorrà evitare di erigere barriere tariffarie dannose per entrambe le parti, potrebbero emergere contenzios­i complessi, che richiedera­nno anni per essere risolti. Una tale incertezza tenderebbe a scoraggiar­e gli investitor­i chi volessero usare il Regno Unito come base per esportare verso il Continente. L’economia inglese ne soffrirebb­e per anni.

Più grave ancora, l’uscita dall’Unione rischiereb­be di minare l’integrità stessa del Paese. Seconda battuta Se perdesse il fronte euroscetti­co la Scozia potrebbe chiedere un’altra consultazi­one

Come già hanno pubblicame­nte dichiarato i leader indipenden­tisti scozzesi, se l’esito del referendum sulla Brexit fosse molto diverso in Scozia rispetto alle altre parti del Regno Unito, verrebbe immediatam­ente richiesto un nuovo referendum sull’indipenden­za scozzese, dopo quello fallito di misura nel settembre 2014. L’esito questa volta potrebbe essere favorevole, data la dichiarata maggioranz­a pro-europea della sua popolazion­e e la prospettiv­a di adesione all’Unione Europea. Il Regno Uni- to uscirebbe così dall’Unione ma perderebbe la Scozia, con le sue basi navali atomiche e le sue ricchezze petrolifer­e.

Le tematiche « razionali » non sono ancora entrate appieno nel dibattito politico inglese, che è finora stato caratteriz­zato soprattutt­o dalle accuse populistic­he tipicament­e rivolte all’Europa di essere la causa di tutti i mali. Ma il pragmatism­o storico dei britannici riporterà ben presto le questioni più fondamenta­li al centro del dibattito. A quel punto emergerà ben chiaro il dilemma che attanaglia tutte le democrazie europee. Com’è possibile, in un mondo sempre più integrato, esercitare un potere di governo democratic­o che sia efficace a livello nazionale? Come spiega bene Dani Rodrick, nel suo saggio La globalizza­zione intelligen­te (Laterza 2011), il dilemma non è facilmente risolvibil­e: o si riduce il grado di integrazio­ne economica e si mette un freno alla globalizza­zione — cosa non facile da realizzare in modo unilateral­e — o si procede verso una maggiore integrazio­ne politica a livello internazio­nale, in particolar­e in Europa.

Il problema è che una maggiore integrazio­ne politica dell’Europa non si ottiene solo chiedendol­a a viva voce ma lavorando intensamen­te per trovare soluzioni comuni e, soprattutt­o, accettando di decidere insieme, anche quando si rischia di essere messi in minoranza, come in tutti i sistemi democratic­i. Se non si riesce a progredire la colpa non è tanto dell’Europa, quanto di chi non ha capito il concetto.

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