I FANTASMI DELL’INTOLLERANZA NELL’EUROPA
DELL’EST
Può apparire strano che Paesi liberatisi da dittature che ne hanno represso a lungo la libertà, si rifiutino di ammettere che l’accoglienza è un dovere di civiltà dell’Ue tutta intera e siano intenti a rimpiazzare i vecchi muri con nuovi steccati, per tenere fuori un’umanità che fugge dalla guerra e da regimi che si fanno beffe della dignità e del diritto. Strano forse, ma è la realtà di buona parte di quella che un tempo si chiamava Europa dell’Est. Sessant’anni di un processo di integrazione difficile hanno dato a una parte dell’Europa — la nostra — la possibilità di fare i conti con il proprio passato dopo due devastanti guerre mondiali, di elaborare il pesante bagaglio delle dittature e di darsi una struttura democratica che garantisse pace e stabilità. Nulla di ciò è accaduto nell’ex «comunità socialista».
La dominazione sovietica ha annegato per cinquant’anni le identità nazionali in un internazionalismo posticcio, impedendo una autonoma riflessione politica e isolando il dibattito da ciò che si andava sviluppando criticamente altrove. Caduto il diaframma con la fine dell’Urss, tutto è sembrato ripartire dalla situazione esistente nell’immediato dopoguerra, se non in molti casi prima. L’adesione all’Ue è stata perseguita nella sua dimensione di mercato e di garanzia di sicurezza, mentre l’impegno per l’unione politica è rimasto al margine. Si trattava di tornare ad essere se stessi, prima di pensare ad ipotetiche cessioni di sovranità. Geografia e storia hanno fatto sì che identità nazionali forti e confini statuali deboli si siano spesso incrociati, con la risultante che in nessun’altra parte d’Europa si può trovare un simile intreccio di minoranze, viste quasi sempre come un elemento «antinazionale» dal quale difendersi. Intolleranze e xenofobie hanno radici profonde, cui si aggiungono pulsioni antisemite che stupiscono in Paesi che più di altri hanno patito la Shoah, e il rifiuto venato di razzismo nei confronti dei migranti non appare destinato ad essere un fenomeno passeggero. La crisi economica ha gettato un’ombra sulla scelta europea e fatto tramontare il sogno di un rapido avvicinamento ai livelli di vita dell’Occidente, dando nuova forza a vecchi fantasmi non solo nell’Ungheria di Orbán e nella Polonia di Duda ma anche, in forme solo apparentemente meno marcate, in quasi tutto il resto della regione.
La Le Pen e Salvini, gli antieuropeisti olandesi e scandinavi, hanno matrici politiche e radici storiche di tutt’altro tipo, ma attenzione ai collegamenti. L’affievolirsi del collante del sentimento europeo e l’insicurezza causata anche da noi da una crisi economica che stenta a morire, alimentano movimenti basati sulla paura del futuro e il rifiuto del diverso, i quali hanno motivazioni se possibile ancora più implausibili ma che, per quanto strumentali, devono preoccupare. Allargandosi verso Est l’Ue aveva ritenuto che l’attrazione di un modello vincente di libertà e tolleranza avrebbe permesso di unificare il continente sulla base di principi condivisi. Abbiamo probabilmente avuto troppa fretta e sottovalutato una divisione che la fine delle ideologie aveva cancellato solo in parte. Ciò detto, non si tratta di creare nuovi e controproducenti cordoni sanitari: la Polonia è stata a lungo un membro costruttivo dell’ Ue e deve poter tornare ad esserlo, così come l’Ungheria. In una Europa che sarà chiamata a muoversi sempre più lungo linee autonome e non necessariamente convergenti, vi potrà essere spazio per processi più lenti, a condizione che questi non mettano in pericolo il procedere degli altri. Nel prendere atto del ritardo di alcuni, dovremo ribadire che l’Unione Europea ha una caratterizzazione economica e politica che va salvaguardata, ma è in primo luogo portatrice di valori di civiltà che ne rappresentano l’irrinunciabile essenza comune. Contestarli vorrà dire chiamarsi fuori, perché l’Europa potrà essere anche non soltanto cristiana, ma se rinunciasse ad essere tollerante avrebbe perso la ragione della sua esistenza.