Il trucco della lista
Poco parla di noi quanto l’elenco delle cose da fare: ecco alcuni consigli per realizzarlo nel modo migliore. Ad esempio, non scrivete mai «riordinare l’armadio»
Risparmiare tempo
I n fondo, l’intera storia del mondo è una continua, infinita lista di cose da fare. La to do list è all’origine di millenarie religioni rivelate (i Dieci comandamenti), è la placenta degli Stati nazionali (le Costituzioni), è la tassonomica certezza delle infanzie a ogni latitudine (i fioretti come «non farò arrabbiare mamma»). Così, nel mese delle agende intonse, nei giorni delle promesse solenni sorte dai cocci vecchi gettati dalla finestra, la to do list è un rosario laico che sgraniamo per auto-infonderci la forza rigeneratrice che nasce dall’ordine. I più raffinati usano la Moleskine, quelli più autoironici lo fanno a matita, gli ortodossi della tecnologia si affidano ad app come Wunderlist, AnyDo o Evernote. E nelle classifiche (un’altra lista!) dei libri più venduti ecco la resistenza di libri come «Il magico potere del riordino» di Marie Kondo, manuale per una vita disciplinata imperniata anche su elenchi di cose da fare.
Che cosa succede? È la definitiva affermazione della forma sul caos? È la silenziosa vittoria della dottrina Zen, che predica l’asservimento alle forme per poterle superare? E quanto deve essere grande il caos che abbiamo dentro per poter partorire una lista danzante? «La compilazione, la formula sintetica dell’elenco è adatta al nostro tempo. Ci semplifica la vita, ci aiuta ad organizzarci, ma va anche oltre: è una sorta di memoria aggiuntiva, in un’epoca in cui siamo letteralmente sopraffatti dalle informazioni, dalle cose da ricordare, dai consigli», afferma Dominique Loreau, scrittrice francese che ha scelto di vivere in Giappone, dove ha imparato che la to do list non è un passatempo, bensì un’alta pratica spirituale. E da queste ricerche è nato un piccolo bestseller, tradotto in Italia da Vallardi con il titolo «L’arte delle liste».
Il principio è squisitamente narrativo: la forma breve e fulminante dell’haiku ha travolto il passo lungo del racconto e così il diario ha lasciato il posto all’elenco. Alla classifica. All’ordine delle priorità. «Il semplice fatto di stilare un inventario in una graduatoria di importanza è una sorta di auto-analisi domestica», afferma Luca Rousseau, psicoterapeuta. Già, la scelta. Quale azione più difficile nella nostra società liquida? Ecco perché la prima regola per una to do list come si deve è quella delle priorità: in testa le cose più importanti, poi quelle secondarie, da ridurre al minimo. L’ordine cronologico delle incombenze è per iniziati, «per chi si fida della propria capacità di auto-disciplinarsi – sintetizquelle za Loreau —. Per chi, invece, ha ancora difficoltà a seguire un percorso rigoroso, meglio la regola della semplificazione delle priorità». E, visto che la poesia è molto vicina alla matematica, si può ricorrere a una formula: 1-3-5, idea di Alexandra Cavoulacos, co-fondatrice del sito The Muse, specializzato nell’analisi di nuove professioni. Il principio è che in una giornata riusciamo a fare solo una tra le cose importanti, al massimo tre di abbastanza rilevanti e cinque (ma non di più) tra quelle meno significative. Inutile appesantire l’elenco, così come è inutile dilungarsi nelle note. Peter Bregman, esperto di organizzazione aziendale, invita a essere molto sintetici e precisi: mai annotare un semplice «riordinare la casa» (è ovvio che non lo faremo mai), ma scendere in alcuni, definiti dettagli, come «spolverare le mensole». Anche qui molti avvertiranno un brivido di terrore all’idea di scegliere questo e non quello (che cosa è davvero importante? È la domanda più complessa). Ma Loreau afferma che è proprio in questa intima decisione che risiede la nostra piccola illuminazione. Fatta anche di un elenco in negativo. Bregman infatti consiglia anche di stilare le «cose da non fare», inventario utile quanto l’altro: è la voce di una coscienza sovente assopita nel conformismo. Davvero è indispensabile avere l’ultimo ritrovato tecnologico? Davvero è utile trascorrere nove ore al giorno smanettando sui social network?
Ecco che si rivela il lato più profondo delle liste. Se nell’anno appena trascorso ne avete stilate alcune, provate a rileggerle. Attenzione: potrebbe essere penoso. Perché l’enumerazione delle cose da fare (e presumibilmente poi fatte) qualche volta fa luce sulla povertà (sociale, spirituale o culturale) di certe vite. Davvero non sono
Dominique Loreau, autrice de «L’arte delle liste»: meglio semplificare assegnando priorità, l’ordine cronologico è per iniziati
mai andato al cinema nel corso di un anno intero? Davvero ho incontrato gli amici solo due volte? È possibile che le mie abitudini siano così scarne? «Perché allora non affiancare alla to do list anche una lista di desideri? — propone Rousseau —. Aiuta a essere più completi. Consiglierei anche di non stilare elenchi lunghi e irrealizzabili: producono frustrazione». David Allen, autore di «Detto Fatto! - L’arte di fare bene le cose», libro tradotto da Sperling&Kupfer e incentrato sulle liste, consiglia di «spacchettare» i compiti in una serie di sotto-incombenze. Esempio: non scrivere «fare il cambio armadi», bensì «1: Riordinare le t-shirt», «2: Rimettere a posto i cappotti» e così via. Le liste, insomma, siamo noi. Visionarie (alcune inteneriscono per la forza dei buoni propositi), letterarie (come il regista giapponese Yasujiro Ozu, che quando annotava «siesta» voleva dire «mi sono preso una bella sbronza»), disperate (l’elenco con le cose da portare via che l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino lasciò che l’obiettivo di un fotografo ingrandisse nel suo ultimo giorno al Campidoglio), oniriche (gli elenchi di Borges). Scriviamole con cura: sono la nostra personale, moderna poesia.