Tiziano Scarpa, il potere della parola
L’autore e la sfida (vinta) del suo romanzo: dare ritmo a ciò che a prima vista appare immobile
Tra i molti pregi del nuovo romanzo di Tiziano Scarpa, Il brevetto del geco (Einaudi), quello che per primo salta in evidenza è la forza dell’inattualità. Cioè il presentarsi come un romanzo che, pur affrontando la contemporaneità, si situa al di fuori del mainstream letterario, quasi una provocazione rispetto all’esistente. Sul piano micro e macrotestuale: cura massima dello stile e nessuna complicità con i generi di trama che vanno per la maggiore. Investimento pieno nella descrizione più che nell’azione: ogni volto, espressione, incontro, ambiente, oggetto, elemento naturale, paesaggio è buono per essere osservato e descritto. Ci si può incantare anche di fronte alla centrifuga di una lavatrice. Un rinnovato romanzo dello sguardo, si direbbe. Scarpa si gioca (quasi) tutto sulla qualità delle parole come occhio del mondo: la sua sfida (riuscita) è dare ritmo e movimento a ciò che a prima vista appare immobile. A differenza di quel che accade per tanti scrittori suoi coetanei, per Scarpa la lingua non è un canale neutro, perché le parole, soggetto e oggetto della narrazione, agiscono nel racconto fino a materializzarsi in esso. Sono l’io narrante, meglio il «noi» narrante, meglio ancora il «noi» descrivente. I (molti) personaggi sono agiti dalle parole, che li accompagnano e li soccorrono quando ne sentono l’insufficienza (cioè spesso). È un atto di fiducia radicale nella letteratura, come accade agli scrittori che non amano le mezze misure, da Volponi a Moresco a Bolaño.
Scarpa è un instancabile sperimentatore, non si accomoda mai sul già fatto, anche quando il già fatto gli consentirebbe di viaggiare sugli allori ( Stabat Mater, Premio Strega 2009). Ogni suo libro è una sfida a sé. Probabilmente la pensa come il protagonista (anzi, uno dei protagonisti) del nuovo romanzo, il quasi quarantenne Federico Morpio, video artista in crisi di identità creativa: «Magari per sempre sfigato e sconosciuto, ma autore delle mie opere». È ovvio che con questa idea fissa, sempre rimessa in discussione, Morpio non andrà molto lontano, ma intanto fa resistenza, a costo di rinunciare alla sua passione. Perché anche la rinuncia è una forma di magnanima resistenza allo spirito trionfante del proprio tempo: un’epoca che «non era in grado di sopportare la disperazione senza che fosse avvolta in un packaging scherzoso». In realtà è questo uno dei motivi fondamentali del Brevetto del geco. Semplificando brutalmente: la sfida della perfezione alla prova del mondo, il rapporto tra talento o intenzione creativa e vita, società, contesto, mercato; lo scarto e/ o l’adeguamento dell’offerta alla richiesta.
Il racconto parte da lui, da una giornata di pioggia torrenziale alla Stazione di Milano (descritta nei dettagli) in cui Morpio, fradicio e con pochi euro in tasca, valuta ansiosamente le sue possibilità dopo vent’anni di attività artistica senza risultati economici tangibili e con alle spalle una storia d’amore naufragata. È il primo dei fili narrativi: quello dei «fantasmi autoprodotti» di Federico, il rovello ossessivo sul che cosa fare della propria vita, sul proprio reale valore di videoartista, sul rapporto tra identità individuale e ambiente (soprattutto il giro delle gallerie), mentre «fuori si celebravano i tesori inestimabili della vita quotidiana». È un filo che trova una svolta con la malattia improvvisa e poi la morte del padre (sono capitoli bellissimi in cui c’è di mezzo un cane che parla) e con la conseguente decisione di abbandonare ogni ambizione artistica e darsi alla podologia ospedaliera. Finché il nuovo (apparente) equilibrio non viene rotto dalla ardita proposta di partecipare a una ambiziosa performance collettiva nei giorni della Biennale di Venezia. È a Venezia che tutto prenderà una strada inattesa e (forse) definitiva. Il tutto in vertiginosa altalena di incontri improbabili e fantasie erotiche (è lo Scarpa comicogrottesco- parodistico), flashback esilaranti di una sorta di inetto sveviano, che oscilla tra fedeltà a se stesso e approssimazione al tradimento,
Tra i protagonisti c’è Federico Morpio, un videoartista in crisi di identità creativa
ancoraggio al passato e voglia di liberarsene.
In parallelo, e in alternanza con i capitoli che hanno per protagonista Morpio, si svolge un’altra storia: quella della giovane e solitaria Adele, la cui vita di impiegata digitale viene letteralmente stravolta da un coccodrillino giallastro che una notte appare sulla parete della cucina. Dal terrore passa all’ammirazione per quel lare domestico che sembra incarnare, con la perfezione delle sue dita prensili, «l’infinita sapienza del Signore Iddio, che aveva dato forma a un meccanismo vivo eccezionale». Dal geco al suo antidoto, l’invenzione umana del teflon (l’unica superficie che il geco non riesce a scalare), alla decisione, attraverso emotività e ragionamento, di lasciarsi sedurre dal Cristianesimo i passi sembrano assurdi ma risultano credibili nel racconto. Così come l’incontro, in una chiesa milanese (pagine mirabili sulla luce), con Ottavio. I due fili narrativi confluiranno in un finale veneziano inatteso e rocambolesco, ricco di trovate spettacolari che accelerano il ritmo dei primi due terzi del libro. E qui mi fermo, perché il romanzo di Scarpa, come i migliori romanzi, non si esaurisce nel suo (del resto impossibile) riassunto. Va notato che i due intrecci hanno un percorso speculare: il primo è la parabola declinante e tormentosa di una passione minata dal dubbio; il secondo traccia un itinerario di conversione sempre più rinsaldato dalla certezza. E nei due casi un ruolo chiave ha la visione (e il suo rapporto con il tempo) come possibilità (fallita o riuscita) di compimento di sé.
Quel che conta, del resto, non è ciò che accade, conta il come viene narrato quel che (non) accade o che potrebbe (non) accadere. Resta da dire la cosa più importante. Che Il brevetto del geco è un romanzo a cornice in cui si annuncia che chi narra in prima persona è un non-personaggio: un non nato, un «interrotto», un non essere, entità superiore o inferiore o laterale, un nulla che aleggia su tutto, un nulla pressoché onnisciente che afferma di voler raccontare la storia di un gruppo in missione permanente e occulta, i Cristiani Sovversivi che intendono sovvertire il mondo con le buone azioni.
Siamo nel versante Amelia e Ottavio al cui centro c’è l’immagine del cronovisore, un dispositivo fanta o archeoscientifico che permetterebbe di cogliere ogni sequenza del tempo andato, dunque anche l’attimo ineffabile e invisibile della Resurrezione di Cristo. Il cronovisore è un’utopia: l’aspirazione di mostrare che cosa è accaduto in un certo luogo in certo momento. Il romanzo è una sorta di sorprendente cronovisore affidato alle parole.
La trama
Fiducia Un atto di fiducia nella letteratura, come fanno gli scrittori che non amano le mezze misure