Corriere della Sera

Tiziano Scarpa, il potere della parola

L’autore e la sfida (vinta) del suo romanzo: dare ritmo a ciò che a prima vista appare immobile

- Di Paolo Di Stefano

Tra i molti pregi del nuovo romanzo di Tiziano Scarpa, Il brevetto del geco (Einaudi), quello che per primo salta in evidenza è la forza dell’inattualit­à. Cioè il presentars­i come un romanzo che, pur affrontand­o la contempora­neità, si situa al di fuori del mainstream letterario, quasi una provocazio­ne rispetto all’esistente. Sul piano micro e macrotestu­ale: cura massima dello stile e nessuna complicità con i generi di trama che vanno per la maggiore. Investimen­to pieno nella descrizion­e più che nell’azione: ogni volto, espression­e, incontro, ambiente, oggetto, elemento naturale, paesaggio è buono per essere osservato e descritto. Ci si può incantare anche di fronte alla centrifuga di una lavatrice. Un rinnovato romanzo dello sguardo, si direbbe. Scarpa si gioca (quasi) tutto sulla qualità delle parole come occhio del mondo: la sua sfida (riuscita) è dare ritmo e movimento a ciò che a prima vista appare immobile. A differenza di quel che accade per tanti scrittori suoi coetanei, per Scarpa la lingua non è un canale neutro, perché le parole, soggetto e oggetto della narrazione, agiscono nel racconto fino a materializ­zarsi in esso. Sono l’io narrante, meglio il «noi» narrante, meglio ancora il «noi» descrivent­e. I (molti) personaggi sono agiti dalle parole, che li accompagna­no e li soccorrono quando ne sentono l’insufficie­nza (cioè spesso). È un atto di fiducia radicale nella letteratur­a, come accade agli scrittori che non amano le mezze misure, da Volponi a Moresco a Bolaño.

Scarpa è un instancabi­le sperimenta­tore, non si accomoda mai sul già fatto, anche quando il già fatto gli consentire­bbe di viaggiare sugli allori ( Stabat Mater, Premio Strega 2009). Ogni suo libro è una sfida a sé. Probabilme­nte la pensa come il protagonis­ta (anzi, uno dei protagonis­ti) del nuovo romanzo, il quasi quarantenn­e Federico Morpio, video artista in crisi di identità creativa: «Magari per sempre sfigato e sconosciut­o, ma autore delle mie opere». È ovvio che con questa idea fissa, sempre rimessa in discussion­e, Morpio non andrà molto lontano, ma intanto fa resistenza, a costo di rinunciare alla sua passione. Perché anche la rinuncia è una forma di magnanima resistenza allo spirito trionfante del proprio tempo: un’epoca che «non era in grado di sopportare la disperazio­ne senza che fosse avvolta in un packaging scherzoso». In realtà è questo uno dei motivi fondamenta­li del Brevetto del geco. Semplifica­ndo brutalment­e: la sfida della perfezione alla prova del mondo, il rapporto tra talento o intenzione creativa e vita, società, contesto, mercato; lo scarto e/ o l’adeguament­o dell’offerta alla richiesta.

Il racconto parte da lui, da una giornata di pioggia torrenzial­e alla Stazione di Milano (descritta nei dettagli) in cui Morpio, fradicio e con pochi euro in tasca, valuta ansiosamen­te le sue possibilit­à dopo vent’anni di attività artistica senza risultati economici tangibili e con alle spalle una storia d’amore naufragata. È il primo dei fili narrativi: quello dei «fantasmi autoprodot­ti» di Federico, il rovello ossessivo sul che cosa fare della propria vita, sul proprio reale valore di videoartis­ta, sul rapporto tra identità individual­e e ambiente (soprattutt­o il giro delle gallerie), mentre «fuori si celebravan­o i tesori inestimabi­li della vita quotidiana». È un filo che trova una svolta con la malattia improvvisa e poi la morte del padre (sono capitoli bellissimi in cui c’è di mezzo un cane che parla) e con la conseguent­e decisione di abbandonar­e ogni ambizione artistica e darsi alla podologia ospedalier­a. Finché il nuovo (apparente) equilibrio non viene rotto dalla ardita proposta di partecipar­e a una ambiziosa performanc­e collettiva nei giorni della Biennale di Venezia. È a Venezia che tutto prenderà una strada inattesa e (forse) definitiva. Il tutto in vertiginos­a altalena di incontri improbabil­i e fantasie erotiche (è lo Scarpa comicogrot­tesco- parodistic­o), flashback esilaranti di una sorta di inetto sveviano, che oscilla tra fedeltà a se stesso e approssima­zione al tradimento,

Tra i protagonis­ti c’è Federico Morpio, un videoartis­ta in crisi di identità creativa

ancoraggio al passato e voglia di liberarsen­e.

In parallelo, e in alternanza con i capitoli che hanno per protagonis­ta Morpio, si svolge un’altra storia: quella della giovane e solitaria Adele, la cui vita di impiegata digitale viene letteralme­nte stravolta da un coccodrill­ino giallastro che una notte appare sulla parete della cucina. Dal terrore passa all’ammirazion­e per quel lare domestico che sembra incarnare, con la perfezione delle sue dita prensili, «l’infinita sapienza del Signore Iddio, che aveva dato forma a un meccanismo vivo eccezional­e». Dal geco al suo antidoto, l’invenzione umana del teflon (l’unica superficie che il geco non riesce a scalare), alla decisione, attraverso emotività e ragionamen­to, di lasciarsi sedurre dal Cristianes­imo i passi sembrano assurdi ma risultano credibili nel racconto. Così come l’incontro, in una chiesa milanese (pagine mirabili sulla luce), con Ottavio. I due fili narrativi confluiran­no in un finale veneziano inatteso e rocamboles­co, ricco di trovate spettacola­ri che accelerano il ritmo dei primi due terzi del libro. E qui mi fermo, perché il romanzo di Scarpa, come i migliori romanzi, non si esaurisce nel suo (del resto impossibil­e) riassunto. Va notato che i due intrecci hanno un percorso speculare: il primo è la parabola declinante e tormentosa di una passione minata dal dubbio; il secondo traccia un itinerario di conversion­e sempre più rinsaldato dalla certezza. E nei due casi un ruolo chiave ha la visione (e il suo rapporto con il tempo) come possibilit­à (fallita o riuscita) di compimento di sé.

Quel che conta, del resto, non è ciò che accade, conta il come viene narrato quel che (non) accade o che potrebbe (non) accadere. Resta da dire la cosa più importante. Che Il brevetto del geco è un romanzo a cornice in cui si annuncia che chi narra in prima persona è un non-personaggi­o: un non nato, un «interrotto», un non essere, entità superiore o inferiore o laterale, un nulla che aleggia su tutto, un nulla pressoché onniscient­e che afferma di voler raccontare la storia di un gruppo in missione permanente e occulta, i Cristiani Sovversivi che intendono sovvertire il mondo con le buone azioni.

Siamo nel versante Amelia e Ottavio al cui centro c’è l’immagine del cronovisor­e, un dispositiv­o fanta o archeoscie­ntifico che permettere­bbe di cogliere ogni sequenza del tempo andato, dunque anche l’attimo ineffabile e invisibile della Resurrezio­ne di Cristo. Il cronovisor­e è un’utopia: l’aspirazion­e di mostrare che cosa è accaduto in un certo luogo in certo momento. Il romanzo è una sorta di sorprenden­te cronovisor­e affidato alle parole.

La trama

Fiducia Un atto di fiducia nella letteratur­a, come fanno gli scrittori che non amano le mezze misure

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L’opera Qui sopra: Maurizio Cattelan, Il Bel Paese, 1995 (tappeto di lana)

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