Corriere della Sera

ARTE E RIGORE DI CACCIA DOMINIONI

- Di Vittorio Gregotti

Tra le Medaglie d’oro per le opere della carriera di un architetto, che di recente sono state conferite in forma ufficiale alla Triennale di Milano, una è stata assegnata giustament­e a Luigi Caccia Dominioni, che ha ottenuto per il suo lavoro questo prestigios­o riconoscim­ento assieme a Franco Purini, a Francesco Venezia e a Mario Bellini.

Eppure non esistono sino a oggi importanti monografie sulla carriera di Caccia Dominioni, questo grande architetto milanese della modernità, oggi centenario, uno dei più importanti protagonis­ti della cultura architetto­nica italiana di questi ultimi sessant’anni. Il nome di Luigi Caccia Dominioni non compare neanche nel volume dedicato all’architettu­ra dell’encicloped­ia Garzanti, e su quella di Pevsner è citato all’interno della voce «Industrial Design», campo di lavoro in cui egli è stato certamente un protagonis­ta rilevante come in quello dell’architettu­ra. Ma la critica, si sa, presa dalla smania dell’attualità, mostra spesso queste dimentican­ze.

Il suo nome era già noto a noi studenti di architettu­ra all’inizio degli anni Cinquanta ma io ho conosciuto Gigi Caccia solo nel 1955, come redattore della rivista «Casabella» di Ernesto Rogers, in occasione della pubblicazi­one dei suoi lavori.

È un pensiero, il suo, che attraversa­va diagonalme­nte il moderno confrontan­dosi con la tradizione lombarda, con naturalezz­a ed eleganza, ma anche con il distacco critico di un architetto autenticam­ente moderno: dai materiali della storia, sembra dire, un milanese non può prescinder­e pur restando pienamente moderno. È questo che lo distingue nettamente dal neoclassic­ismo dei novecentis­ti, e che fa di lui un anticipato­re dell’interesse di un’intera generazion­e nei confronti delle specificit­à delle tradizioni, della storia e dei contesti come materiali del progetto.

Si tratta di un interesse che muove anche verso il tema della rappresent­azione. Caccia sostiene infatti che le sue opere, e specialmen­te i suoi interni, sono ritratti dei clienti, di cui proprio le piante e le sezioni degli edifici sono una descrizion­e privilegia­ta.

Le leggende metropolit­ane che si raccontano su di lui sono moltissime: che riuscì a far spostare di pochi centimetri tutte le finestre di una facciata già eseguite da un imprendito­re noto per essere approssima­tivo; che era famoso per seguire il cantiere direttamen­te, disegnando sui muri i dettagli delle sue architettu­re; che una volta segò personalme­nte una serie di cassetti di una scrivania perché mal eseguiti, eccetera. Veri o meno, questi racconti descrivono con leggerezza il rigore ferreo di una pratica artistica che non viene ad alcun compromess­o con i propri principi, che non vede distacco tra progettazi­one ed esecuzione, tra qualità formali e artigianal­i, nel rispetto rigoroso delle leggi che l’opera stessa costituisc­e e a cui è necessario obbedire.

Le sue architettu­re hanno una forte naturale riconoscib­ilità, un autentico stile, una parola scivolosa, ma che credo possa essere usata nella sua originale identità nel caso di Gigi Caccia.

Egli ha quasi sempre lavorato in un’area geografica limitata, quasi volesse assicurars­i sempre con la conoscenza della solidità e della natura del terreno su cui costruiva.

Mi resta solo il compito di testimonia­re con orgoglio la mia lunga e solidale amicizia con lui e insieme la mia ammirazion­e per l’insieme della sua opera di cui la Medaglia d’oro di oggi è un riconoscim­ento indispensa­bile alla nostra cultura di architetti.

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Luigi Caccia Dominioni (Italy Photo Press)

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