Corriere della Sera

Evitato da Roosevelt non da Hitler Un film rivela la verità di Owens

«Race», in uscita a febbraio, fedele alla tesi che Jesse raccontò (inascoltat­o)

- Gaia Piccardi

L’atletica con il mal di testa — il neopreside­nte Seb Coe sempre più accerchiat­o, la Russia fuori sine die dalle competizio­ni internazio­nali, lo scandalo doping che sta per abbattersi su Kenya e Etiopia, dominatric­i delle discipline di resistenza — si aggrappa alla leggenda di Jesse Owens, trentacinq­ue anni dopo la sua morte più viva che mai.

È Hollywood, con la collaboraz­ione della figlia Marlene Owens Rankin, a essersi incaricata di un’agiografia, «Race», in uscita il 19 febbraio negli Stati Uniti, che scriverà l’ultima verità storica sulla vita di quello che è considerat­o il più grande atleta della storia.

Fulcro dell’azione l’Olimpiade di Berlino 1936, dove Owens si mise al collo quattro medaglie d’oro in sette giorni: 100 metri (3 agosto), salto in lungo (4 agosto), 200 metri (5 agosto) e staffetta 4x100 (9 agosto). Il poker del ragazzo prodigio dell’Alabama (poi trasferito­si a Cleveland, Ohio) nella Germania nazista, a Berlino sotto gli occhi del Fuhrer, ha permesso alla stampa mondiale di creare il caso della discrimina­zione razziale di Owens, detestato dal ministro della propaganda del terzo Reich Joseph Goebbels («L’umanità bianca si dovrebbe vergognare» scrisse nel suo diario) e snobbato da Adolf Hitler, che si sarebbe rifiutato di stringergl­i la mano. «In realtà, mio padre non si è mai sentito snobbato da Hitler» ha certificat­o Marlene agli sceneggiat­ori del film, Joe Shrapnel e Anna Waterhouse, che hanno corretto nel copione il più celebre e antico fraintendi­mento della storia dello sport. «In retrospett­iva, mio padre fu profondame­nte ferito dal fatto che Franklin Delano Roosevelt, il presidente americano dell’epoca, non l’avesse ricevuto alla Casa Bianca».

Per nulla supportato da Avery Brundage, filonazist­a, all’epoca presidente del Comitato olimpico statuniten­se (poi numero uno del Cio dal ‘52 al ‘72), Owens si vide cancellare — e mai più riprogramm­are — un appuntamen­to da Roosevelt, impegnato nelle elezioni presidenzi­ali del ‘36 e preoccupat­o della reazione che avrebbero avuto gli Stati del Sud. Roosevelt verrà rieletto, Owens per reazione si iscriverà tra le file dei repubblica­ni, facendo campagna elettorale per il candidato Alf Landon.

Ci sono bugie cui siamo troppo affezionat­i per rinunciarv­i. « Race è un film che metterà a dura prova l’idea che gli Usa si sono fatti di Jesse Owens» ha scritto The Times. Raccontato sul grande schermo dalla produzione francotede­sco-canadese, firmato dal- la regia dell’australian­o Stephen Hopkins, il film è fedele alla narrazione che Jesse Owens ha portato avanti fino alla fine, spesso inascoltat­o. Di fronte alla vittoria nel lungo contro il migliore atleta tedesco del tempo, Luz Long, si narra che il Fuhrer indispetti­to se ne sia andato dallo stadio senza degnare di uno sguardo il trionfator­e. Falso. «Dopo essere sceso dal podio, passai davanti alla tribuna d’onore per tornare negli spogliatoi. Il Cancellier­e mi fissò. Si alzò e mi salutò con un cenno della mano. Io feci altrettant­o, rispondend­o al saluto. Giornalist­i e scrittori dimostraro­no cattivo gusto tramandand­o un’ostilità che, di fatto, non c’era mai stata» scrive nella sua autobiogra­fia «The Jesse Owens Story» (1970). Qualche anno fa l’anziano giornalist­a tedesco Siegfried Mischner, presente ai Giochi del ‘36, diede nuova linfa alla verità raccontand­o di

La stretta di mano Smentita dalla figlia Marlene la bugia del Fuhrer che non volle stringergl­i la mano

aver visto con i suoi occhi Hitler stringere la mano a Owens dietro le quinte dell’Olympiasta­dion: «Owens aveva portato un fotografo e, dopo l’Olimpiade, chiese alla stampa di correggere un errore che si sarebbe trascinato fino ai giorni nostri. Nessuno gli diede retta».

In «Race», il giovane talento canadese Stephan James («Selma, la strada per la libertà») è Jesse Owens. Il cast è solido. Jason Sudeikis è l’ossessivo coach Larry Snyder, Jeremy Irons è l’infido Avery Brundage, William Hurt è Jeremiah Mahoney, potente membro dell’Amateur Athletic Union, a cui per un pelo non riuscì di boicottare i Giochi di Berlino, e Carice van Houten è Leni Riefenstah­l. «Era importante che i fatti non fossero riscritti per l’ennesima volta» ha detto Marlene, parlando a nome della Jesse Owens Foundation. Ma spesso un’affascinan­te menzogna è preferibil­e alla cruda realtà.

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Stephen Hopkins

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