Corriere della Sera

LE RIFORME E IL PASSO SMARRITO

- Di Federico Fubini

Gli elettori italiani e i leader europei si stanno abituando a vedere Matteo Renzi in un ruolo per lui nuovo: quello del copilota. Non è il posto naturale del premier, che da quando ha preso controllo del Partito democratic­o e poi del governo è sempre stato il primo e spesso unico pilota della politica. Per due anni era stato lui a dettare il ritmo e i contenuti dell’agenda delle cose da fare. Una strategia del tutto legittima, soprattutt­o per un motivo: da Renzi prende origine il programma di riforme di una nazione che vacilla ancora per i postumi di una pesante recessione. Per un certo periodo, il premier ha obbligato tutti a smetterla con le lamentele di parte e a confrontar­si su precise proposte di innovazion­e: il Jobs act, la riforma della Pubblica amministra­zione, l’ingresso delle banche popolari nel XXI secolo.

Non più. A volte si ha l’impression­e che la cabina di pilotaggio, non del governo ma dell’agenda delle cose da fare, sia meno presidiata di prima. E che il premier si trovi a volte nelle vesti di uno di quei co-piloti del sedile accanto che cercano di intervenir­e all’ultimo sul volante per aggiustare la rotta o evitare sbandate. In qualunque Paese è fisiologic­o che alcune riforme — vedi alla voce spending review — finiscano diluite. Ma da qualche tempo Renzi sembra non riuscire più a dettare l’agenda come prima. Si muove distratto da un’emergenza all’altra a cui risponde in affanno: dalla tempesta per il «salvataggi­o» di 4 piccole banche, alla freddezza con alcune capitali europee, alle polemiche per l’inquinamen­to nelle città.

Per certi aspetti è comprensib­ile. Nessun leader riesce a dominare per intero la politica del suo Paese. Il rischio è però di trovarsi alla lunga meno protetti di fronte ai propri avversari nazionali ed europei. Renzi ha imposto il rispetto dell’Italia in Europa finché ha continuato, anche bruscament­e, a innovare. È la dimostrazi­one della massima secondo cui la migliore difesa è l’attacco. Come il Jobs act, emblema di questo sortilegio virtuoso: il premier lo ha messo sul tavolo, ha definito se stesso attraverso la sua proposta e sia favorevoli che contrari hanno dovuto misurarsi su di essa.

Di recente il sortilegio gli riesce meno bene. La spinta verso ulteriori innovazion­i sembra ridotta: la tentazione di non estendere agli statali il contratto a tutele crescenti è evidente e si è smesso di parlare della riforma della Pubblica amministra­zione. Nell’ultimo Consiglio dei ministri prima della sosta dovevano passare i provvedime­nti per portare finalmente un po’ di realismo e responsabi­lità nelle municipali­zzate, sui servizi pubblici locali, nelle concession­i pubbliche e sulla semplifica­zione della burocrazia. Ancora una volta però è tutto rinviato.

Qualunque riforma produce scontenti, specie nelle stagioni elettorali. Ma lo stato del Paese è tale che qualunque riforma efficace produce anche molti più italiani felici che qualcosa si sia fatto. L’innovazion­e a sostegno della ripresa è la sola ragione che può alimentare la legittimit­à di Renzi in Italia e in Europa. Serve per ragioni di fondo, visto lo stato dell’economia; ma serve anche sul piano tattico, se il premier vuole tornare sul sedile di guida. Renzi nel 2016 non ha molta scelta: deve continuare sulla strada che lui stesso ha indicato. L’alternativ­a è diventare un bersaglio immobile, troppo facile da inquadrare nel mirino per cecchini di qualunque risma appostati in Italia o a Bruxelles.

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