Corriere della Sera

«Io e i miei rifugiati salvati dalla tenerezza»

Tra i fuggiaschi della guerra siriana: persone bisognose di tutto, che mi hanno dato molto

- di Mika

La mattina del secondo giorno inizia presto, a Tripoli, a nord di Beirut, uno dei quattro centri di accoglienz­a dell’ Unhcr in Libano. Questo è il primo posto dove la gente costretta ad abbandonar­e le proprie case e la propria terra deve registrars­i come rifugiato in modo da ricevere aiuto e assistenza. A prima vista è un luogo desolante: muri di cemento alti sette metri e filo spinato in cima circondano il complesso in un’area dismessa vicino al centro della città. Ogni giorno le guardie di sicurezza vestite di nero fanno entrare attraverso un corridoio pieno di barriere e recinzioni circa 1000 rifugiati, per lo più già preregistr­ati.

La traccia

Cartoncini colorati vengono distribuit­i tra i rifugiati in base ai loro bisogni. A quel punto, ogni certificat­o di registrazi­one viene verificato e ogni dettaglio biometrico aggiornato prima che venga prestato qualsiasi tipo di consulto o assistenza. Questo lungo processo è essenziale al fine di essere sicuri che ognuno riceva il giusto sostegno e l’aiuto di cui ha bisogno. In questo modo si tiene traccia del numero e delle condizioni dei 1,1 milioni di rifugiati siriani che vivono in Libano. Questi centri sono il posto più importante nella vita di un rifugiato.

Il bunker si anima

Giunto all’apertura, assisto al la trasformaz­ione del centro da una specie di bunker vuoto e sinistro come il set di un film post-apocalitti­co, in un posto traboccant­e di vita.

Lo staff dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati), composto in larga parte da ventenni libanesi, lavora ininterrot­tamente dal momento in cui si aprono le porte. Finalmente inizio a cogliere il senso di un’amministra­zione così strutturat­a, delle tante ore di lavoro e dell’enorme necessità di raccoglier­e fondi affinché ciascuna di queste famiglie riceva supporto.

Il negoziante e il meccanico

Khaled, volontario libanese di 28 anni dell’Unhcr (foto 1), mi fa da guida. Le famiglie dei rifugiati, in arrivo per ricevere assistenza per l’inverno, sono prima condotte in una stanza vicino all’ingresso, dove i bambini possono essere vaccinati , prima che la famigli proceda ad essere assistita a livello individual­e.

Le famiglie attendono tutte assieme, spesso in gruppi numerosi, anche di 16 persone. I nuclei estesi ma molto uniti sono abbastanza comuni tra i rifugiati siriani, dove spesso i fratelli sono cinque o sei. Non riuscendo a frenare la mia curiosità, inizio a parlare con qualcuno di loro nella sala d’attesa. Ho incontrato il padre di due bambini insieme con la moglie, proprietar­i di un minimarket ad Aleppo e di una casa nelle vicinanze. Sono dovuti andare via quando entrambi gli edifici sono stati colpiti da una barrel bomb (i micidiali «barili bomba» lanciati da velivoli). Ho poi conosciuto un ragazzo di 28 anni con il suo bimbo appena nato. Proprietar­io di un’autofficin­a, anche lui è dovuto scappare dopo un bombardame­nto che ha coinvolto l’edificio. Un altro giovane, 22 anni, di Homs, l’ho incontrato mentre seduto su una sedia a rotelle attendeva con i suoi sette fratelli, la famiglia e la sua giovane moglie. Tutti loro hanno dovuto abbandonar­e la propria casa, sempre a causa di una barrel bomb, la stessa che gli ha portato via le gambe. Questo ragazzo mi ha raccontato che la sua sola speranza è di risistemar­si in un altro Paese. Visita il centro di accoglienz­a con regolarità per sapere se ci sono novità al riguardo. Ho incontrato insegnanti, agricoltor­i, ingegneri informatic­i. Sono persone di varia estrazione e tanti percorsi di vita, ma ai miei occhi occidental­i, affatto abituati agli abusi della guerra, appaiono identici nella disperazio­ne, con i loro vestiti lisi, le facce contratte e quell’espression­e tipica di chi è stato costretto ad abbandonar­e tutto quello che possedeva. Il mio cuore è combattuto tra il seguire le singole storie che sto ascoltando o la moltitudin­e di persone che vedo. Osservo quanto le avversità e le perdite erodano l’aspetto degli individui. Li rendano simili. Un agricoltor­e che non ha mai potuto studiare è identico a un insegnante di scuola media. Uniti nelle avversità, aspettano un aiuto. Aspettano. Sono già quattro anni.

A una giovane rifugiata siriana ( foto 2) viene effettuata la scansione dell’iride in modo che lei e la sua famiglia possano ricevere il supporto necessario.

Khaled mi conduce su per un scala esterna che porta al primo piano, dove per la prima volta posso guardare oltre quel muro di cemento e vedere i campi e la periferia di Tripoli. La luce da quassù è molto differente: il sole è luminoso e la fredda brezza invernale ci circonda mentre

attendiamo fuori da una cabina dove una famiglia sta ricevendo informazio­ni. Non è solo la luce a essere differente. C’è un’aria di eccitazion­e e ci sono sorrisi cauti sui visi di ognuno.

All’interno mi vengono presentati Mohammed e la sua famiglia ( foto 3) ai quali due mesi fa è stato detto che si sarebbero ristabilit­i in Gran Bretagna. Sono stati «giudicati» molto vulnerabil­i, per motivi che non mi vengono detti. Non sanno di preciso dove saranno mandati e quando. Tuttavia i loro bagagli sono fatti: pronti per partire con poche ore di preavviso. «Stiamo per rinascere», mi dice la mamma. «È una nuova vita e noi ringraziam­o Dio per averci dato questa possibilit­à». La loro gratitudin­e è palpabile e il desiderio di integrarsi finalmente nella società inglese è grande. «Ci diamo sei mesi dal giorno del nostro arrivo fino al giorno in cui parleremo un inglese fluente. I nostri figli saranno ragazzi inglesi che vengono dalla Siria».

Il quinto anno di guerra

La guerra in Siria entra ormai nel quinto anno e le famiglie che sono state costrette a fuggire in Libano e in altri Paesi vicini hanno esaurito ogni risparmio, non possiedono più nessun bene, non hanno il permesso di lavorare, fanno molta fatica a pagare i conti e a dare un tetto ai propri bambini e a mandarli a scuola. Molti genitori come Mohammed e sua moglie hanno accettato l’idea che il futuro così come l’avevano immaginato sia purtroppo svanita; tuttavia rimangono fieramente determinat­i a far sì che il futuro dei loro figli sia pieno di opportunit­à, che porti la promessa di una vita migliore.

Spostarsi in un altro Paese, attraverso un programma ufficiale di reinsediam­ento, è la soluzione a lungo termine adesso sperata da molti rifugiati. Tuttavia, i luoghi dove potersi stabilire sono ancora limitati e, per molti, rischiare la vita per assicurare la salvezza e il futuro delle loro famiglie sembra l’unica soluzione rimasta. «Prima di sapere che saremmo stati reinseriti, ero pronto a partire per la Turchia con mio figlio di 10 anni e poi, da lì, andare in Grecia con una barca» spiega Mohamed. «Non avevo scelta, la situazione mi stava per obbligare a rischiare».

Dal Centro di accoglienz­a ci dirigiamo verso una strada alberata distante da noi circa una quindicina di minuti. Nascosta da una dozzina di ulivi ,c’è la sede abbandonat­a di un allevament­o di polli. La costruzion­e in rovina non ha quasi più muri, e il tetto in lamiera è in larga parte crollato. Sono accolto da Ahbed (per motivi di sicurezza cambiamo il suo nome), un siriano sui 40 anni. Mi stringe la mano e passando

Combattere il freddo

Le condizioni dove vivono solo a malapena essenziali. Raccoglien­do materiali e mattoni in giro, ha costruito dei muri in modo da proteggers­i in qualche modo. Il tetto in metallo tuttavia non trattiene l’acqua e non ci sono vetri alle finestre, solo delle reti. Non c’è acqua corrente, l’elettricit­à è scarsa e non ci sono bagni. Una sola tubazione d’acqua arriva in una stanza dove, in un angolo, la famiglia cucina e lava. Ahbed ha costruito una fossa biologica di fortuna in un’altra parte dell’edificio. Una piccola fornace a gas è l’unica fonte di riscaldame­nto. «Il nostro primo inverno qui è stato un’incubo — mi spiega — pioveva nella nostra stanza e il freddo era intenso. È stato terribile. Sembrava oltre ogni limite di sopportazi­one. Per sopravvive­re, il caldo è importante quanto il cibo. Se tu fossi affamato non cercherest­i un modo per mangiare?».

Il problema più grande nella crisi dei rifugiati è che, lungi dal migliorare, la situazione finanziari­a e i loro bisogni stanno peggiorand­o. Sepolti da una montagna di debiti, coi risparmi ormai finiti, i rifugiati stanno diventando sempre più dipendenti dagli aiuti dell’Unhcr, che però è gia sottofinan­ziata del 50%. C’è una voragine finanziari­a che se non viene colmata da Paesi o benefattor­i privati (aziende, grossi donatori e il sostegno del grande pubblico) continuerà a essere alimentata solo dalle sofferenze.

I soldi che mancano

L’inverno e le sfide che comporta esasperano ulteriorme­nte questo assurdo problema. Nonostante le condizioni di vita, Ahbed deve pagare un affitto mensile di 200 dollari. Pur avendo a carico una moglie e cinque bambini, due dei quali sono sordi e bisognosi di cure, non gli è permesso di trovare un lavoro. Riceve un sostegno economico da parte dell’Unhcr, 175 dollari in contanti, e un altro piccolo supporto in denaro durante i quattro mesi invernali, a coprire i costi per il combustibi­le e il radiatore. Ci sono molte altre famiglie bisognose che l’Unhcr non è in grado di aiutare a causa della grave mancanza di finanziame­nti.

Ho trascorso un’ora e mezza con Ahbed e la sua famiglia, almeno fino a quando l’ansia del figlio più grande, diciassett­enne non udente, ci ha costretti ad interrompe­re la conversazi­one prima del previsto. Vedendolo di fronte a tali sfide, ho chiesto ad Ahbed quali speranze riponga nel futuro. Ammette che potersi integrare in Libano ottenendon­e la residenza per lui e per la sua famiglia è tanto irrealisti­co quanto un eventuale reinsediam­ento altrove. Il suo unico desiderio è sopravvive­re. Devono solo attendere e a malapena tirare avanti, cosicché quando la porta si aprirà nuovamente e potranno tornare a casa, saranno in grado di ricomincia­re, ricostruen­do ciò che hanno perduto. Per ora, aspettano, non importa quanto tempo occorrerà.

Mi faccio fare una foto con Ahbed e la sua famiglia ( foto 5). Il secondo da sinistra è il figlio Omar, completame­nte privo d’udito e impossibil­itato dall’andare a scuola.

Mentre ci trovavamo nell’allevament­o di polli abbandonat­o, un gruppo di bambini che stava giocando a nascondino, tra macerie e panni stesi, ci ha mostrato la zona. Molti di loro sono cresciuti in questo posto ( foto 6).

Dopo aver salutato Ahbed, andiamo a Tripoli, in una delle comunità supportate dall’Unhcr. Al mio arrivo è in corso una festa natalizia (foto 7). Uno spettacolo di marionette è stato organizzat­o dai volontari. Due di queste marionette insegnano ai bimbi più piccoli, molti dei quali vivono in insediamen­ti privi di acqua corrente, quanto sia importante l’igiene personale.

I sogni più grandi

Al primo piano un gruppo di rifugiate siriane sono indaffarat­e a ricamare calze di Natale e decorazion­i ( foto 8). Si tratta di oggetti che verranno venduti entro due giorni alla fiera organizzat­a dalla chiesa locale e i cui proventi saranno distribuit­i nella comunità.

Per l’ultimo incontro del mio viaggio, Mireille Girard, rappresent­ante dell’Unhcr in Libano, mi presenta a un gruppo di ragazze e ragazzi. È in assoluto il primo gruppo giovanile costituito in questo Stato da adolescent­i libanesi e rifugiati siriani, con l’obiettivo di colmare il divario tra le due comunità favorendo l’integrazio­ne e la collaboraz­ione. In soli due anni questi ragazzi hanno stimolato la formazione di dozzine di altri gruppi giovanili sparsi in tutto il Libano, i quali stanno provando ad ottenere lo stesso risultato. Provengono da differenti background ma hanno tutti interesse a portare avanti gli studi pur continuand­o a lavorare part time. In tal senso Facebook li ha aiutati a riunirsi e ad aiutarsi a vicenda.

Un’altra delle loro principali preoccupaz­ioni è di affrontare i pregiudizi e la negatività che le comunità libanesi e i rifugiati siriani avvertono gli uni verso gli altri. Le parole che ascolto durante l’incontro sono coraggiose ed eloquenti. In breve tempo dimentico chi, nel gruppo, è libanese e chi è siriano. Dimentico chi è un rifugiato e chi no. Quando chiedo se pensano che le loro vite siano come tenute in sospeso, la risposta è un fragoroso «No». Alla domanda se qualcuno dei loro sogni si sia infranto a causa della guerra e del loro trasferime­nto forzato, tutti rispondono «No», tranne un giovane che sorridendo mi dice: «Sì, i miei sogni sono cambiati. Ora sono molto più grandi».

Le due parole che sono fissate nella mia mente, anche a distanza di una settimana dalla mia visita, sono «resilienza» e «tenerezza». La resilienza di fronte a sfide impression­anti e l’umana tenerezza che una persona deve possedere per sopravvive­re mantenendo intatta la propria umanità. Se ti indurisci, rischi di spezzarti sotto i colpi della violenza. È questo l’unico modo per combattere il terrore Resilienza e tenerezza insieme sono le qualità più potenti di cui l’uomo dispone Sono un cancro per il terrore e un conforto per chi ha perso così tanto

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1 Khaled, volontario di Unhcr, mostra a Mika il centro di accoglienz­a di Tripoli
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