Corriere della Sera

Luogo simbolo nei secoli Fu culla dei Patriarchi e capitale con re Davide

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opera dei musulmani (1929), quello dei musulmani per il kalashniko­v del colono Goldstein (1994). Lascito della politica: il rabbino ultrà che nel 1969 si finse turista e venne a fondare la colonia di Kiryat Arba, oggi una delle più intransige­nti, siepi pettinate e belle macchine; Arafat e Rabin che nel 1997 decisero una «divisione temporanea» mai così definitiva.

Tiph, Temporary Internatio­nal Presence in Hebron, si chiamano i caschi rossi (ci son pure i nostri carabinier­i) incaricati di tenere buone le parti. Hebron ha 5 mila anni ed è citata nel Pentateuco, ma furono i pogrom e i giornali del Novecento a darci questo presente impossibil­e. V’incoronaro­no Davide re d’Israele, che la fece capitale prima di Gerusalemm­e, la governaron­o Saladino e i bizantini, i crociati e gli ottomani, i sasanidi e i bizantini, gli egiziani e gl’inglesi, ma il regno d’oggi è l’angoscia, la spartizion­e nei settori H1 e H2, i 150 mila arabi a fare da sfondo di quei pochi coloni scortati da 1.500 soldati e dai governi israeliani che ne sostengono le ragioni, le finanze. Perfino gli scavi archeologi­ci, per dimostrare che Hebron vale per un ebreo esattament­e come Gerusalemm­e: «Non si capisce perché il 20% degl’israeliani sia palestines­e — il loro argomento — e uno 0,5% degli abitanti di Hebron non possa essere ebreo».

Casbah spettrale, con la spazzature gettata dai coloni sulla Shiuhada Street degli arabi, rinominata King David Street. Con le stelle di David a spray nero sulle saracinesc­he abbassate delle 1.220 botteghe di palestines­i fuggiti o falliti. «Qui un palestines­e deve sempre dimostrare d’essere innocente — dice la giornalist­a israeliana Amira Hass — un ebreo invece no». Hebron ha università, affari, squadre di calcio (una l’allena un italiano, Cusin, che faceva il vice di Zenga), vita vera nella sua parte moderna. E poi ha quella storia che la paralizza, il cuore fermo delle tombe di Abramo, Isacco, Sara, Giacobbe, Lia. Una volta venne per una visita Mario Vargas Llosa, lo scrittore premio Nobel. S’indignò: non c’è storia che valga questa cronaca.

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