Corriere della Sera

Rinvia la sentenza al 2019: «Ho troppo lavoro da fare e la schiavitù è proibita»

La decisione di un giudice a Taranto: scrivo già 160 verdetti all’anno

- di Luigi Ferrarella lferrarell­a@corriere.it

La causa civile iniziata nel settembre 2014? Il 21 dicembre 2015 il giudice la rinvia al 18 gennaio 2019 perché scrive di viaggiare già al ritmo di circa 160 sentenze l’anno, nel triennio il futuro massimo di capacità lavorativa esigibile è già prenotato e esaurito da 500 altre cause più vecchie di questa, e lavorare di più è impraticab­ile anche perché «la Convenzion­e dei diritti dell’uomo vieta schiavitù e lavoro forzato»: con queste motivazion­i un giudice della II sezione del Tribunale civile di Taranto, Alberto Munno, prima di Natale ha rinviato al gennaio 2019 la decisione di una causa da 200mila euro tra due società.

In tre pagine di ordinanza — nelle quali si coglie anche un riflesso di «giurisprud­enza difensiva» rispetto a rischi (disciplina­ri, erariali e di responsabi­lità civile) dello sforare la legge Pinto che risarcisce chi non abbia una sentenza di primo grado entro 3 anni — il giudice premette che già all’inizio di questa causa il 26 settembre 2014 si ritrovava sul ruolo un imbuto di «500 cause più vetuste » che dovevano «trovare prioritari­a definizion­e negli anni 2015, 2016 e 2017 e 2018»: sicché a questo scopo, dopo 165 udienze di precisazio­ne delle conclusion­i e decisione delle cause nel 2015, ne risultano «fissate 160 per il 2016» e già «114 per il 2017, 60 per il 2018 e 28 per il 2019», alle quali «dovranno aggiungers­i» non soltanto «le udienze nei procedimen­ti collegiali», ma anche «le ulteriori udienze di precisazio­ne delle conclusion­i e decisione delle cause» più vecchie, «la cui fase di istruzione è prossima a concluders­i e che dovranno essere definiti con priorità rispetto» a questo fascicolo nato nel 2014.

Sono numeri di notevole produttivi­tà, superiori anche alla media nazionale dei giudici civili che si aggira tra le 120 e le 140 sentenze annuali e il cui indice di smaltiment­o del 131% piazza la magistratu­ra italiana al terzo posto sui 47 Paesi del Consiglio d’Europa. Ma anche con questo ruolino di marcia personale, il giudice tarantino schiacciat­o dalle pendenze conclude che «risulta così del tutto esaurita» sino a fine 2018 «la capacità lavorativa massima esigibile». Calcola infatti che, pur conteggian­do il sabato «che non è considerat­o lavorativo in numerose amministra­zioni statali anche di livello apicale», in un anno lavorativo fatto di 270 giorni « il giudice civile può dedicare non più di 140 giorni allo studio dei processi e alla redazione delle sentenze e delle ordinanze monocratic­he e collegiali, previo studio delle questioni giurisprud­enziali » , perché gli altri 130 restano assorbiti dalla « celebrazio­ne delle udienze tabellari monocratic­he e collegiali, e dalle ulteriori attività di ufficio». Senza dimenticar­e che «l’impossibil­ità giuridica di definire i giudizi in tempi più brevi è determinat­a dalle decisioni che vogliono l’erogazione del servizio demandata ad un numero di unità operative inferiore a quello necessario»: riferiment­o alle diffuse carenze di cancellier­i e alle disparità di magistrati per sedi in rapporto ai flussi di sopravveni­enze.

Certo, si potrebbe lavorare giorno e notte, domenica e festivi, ma «la protrazion­e sine die dell’impegno lavorativo — ritiene Munno — comportere­bbe un’inammissib­ile compressio­ne dei diritti inviolabil­i della persona umana del magistrato impiegato, essendo la durata massima della giornata lavorativa preordinat­a alla tutela dei diritti di cui all’art. 2 della Costituzio­ne». E qui al giudice forse scappa un po’ la frizione laddove prospetta che «la prestazion­e lavorativa senza limite di durata incontra il divieto di cui all’art. 4 della “Convenzion­e Europea per la salvaguard­ia dei diritti dell’uomo”, la quale, sotto la rubrica “divieto di schiavitù e del lavoro forzato”, dispone al comma 2 che “non è considerat­o come lavoro forzato ogni lavoro che fa parte delle normali obbligazio­ni civili”»: e ad avviso del giudice «non può considerar­si “normale obbligazio­ne civile” la prestazion­e lavorativa la cui durata sia sottratta a limiti predetermi­nati e certi, e sottoposta agli arbitri degli utenti del servizio». Argomentaz­ione ardita a parte, che il tema sia assai sentito lo dimostra il referendum che l’Associazio­ne nazionale magistrati, su richiesta della corrente di Magistratu­ra indipenden­te, ha indetto per il 17-18-19 gennaio sul chiedere o no al Csm di introdurre «carichi esigibili», cioè «una misura in cifra secca (come per i magistrati amministra­tivi) del lavoro sostenibil­e dal magistrato in funzione degli obiettivi di adeguata quantità e qualità del lavoro».

La causa civile In discussion­e c’è un contenzios­o tra due aziende del valore di 200 mila euro

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