Corriere della Sera

Una legge cancella la parola fallimento

Nella riforma verrà sostituito dalla «liquidazio­ne giudiziale» Le procedure attualment­e durano anche 50 anni

- Di Sergio Rizzo

La prima riforma colpirà il vocabolari­o. Nessuno potrà più apostrofar­e un fallito dicendogli: «Fallito!» Sempliceme­nte perché la parola fallimento sarà bandita dai codici.

La « sorpresa » è prevista nella legge delega che il consiglio dei ministri approverà fra un paio di settimane. Sostituira­nno il vocabolo maleodoran­te con una ben più anodina espression­e: «Liquidazio­ne giudiziale». L’ultima piccola rivoluzion­e del politicall­y correct lessicale, dopo quelle che hanno investito le nostre infinite leggi, dove i ciechi sono diventati «non vedenti» e i sordi «audiolesi», mentre la caccia veniva trasformat­a in «prelievo venatorio» e i lavoratori a rischio licenziame­nto si scoprivano addirittur­a, grazie a uno zelante sfrondone linguistic­o, «esuberanti».

Ma questa è diversa. Nella scomparsa della parola c’è l’essenza stessa della riforma del diritto fallimenta­re che Matteo Renzi ha detto di voler mettere in pista prima possibile, all’inizio di un 2016 che almeno da questo punto di vista comincia un po’ meglio dell’anno appena finito. La notizia è che per la prima volta dal 2011 i fallimenti sono in diminuzion­e: i dati di Infocamere la società di informatic­a che fa capo all’Unioncamer­e oggi presieduta da Ivan Lo Bello, dicono che nei primi undici mesi del 2015 hanno fatto crac 12.583 imprese, il 4,8 per cento in meno rispetto ai 13.223 dell’anno precedente. Anche se il maggior numero di procedure si registra ancora nel cuore economico del Paese, con il più elevato tasso di fallimenti in Lombardia (2,8 per mille imprese contro una media nazionale di 2,1): a conferma della fragilità della nostra ripresina. Il che non deve tuttavia deprimere le buone intenzioni.

Perché eliminare quel marchio d’infamia, «fallimento», significa allinearsi «a una tendenza già manifestat­asi nei principali ordinament­i europei di civil law, volta a evitare l’aura di negatività e di discredito, anche personale, che storicamen­te a quella parola si accompagna. Negatività e discredito non necessaria­mente giustifica­ti dal mero fatto che un’attività d’impresa abbia avuto un esito sfortunato»: c’è scritto nella relazione che accompagna il disegno di legge. Dove si aggiunge che «anche solo dal punto di vista dell’immagine appare assai singolare che la normativa di base sia ancora costituita dal regio decreto 19 marzo 1942», approvato quasi 74 anni fa dal regime fascista, in piena Seconda guerra mondiale.

Quella relazione porta la firma di Renato Rordorf, da pochi giorni presidente aggiunto della Corte di Cassazione, ex commissari­o della Consob. A lui il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha affidato nel febbraio 2015 la guida della commission­e incaricata di mettere a punto il testo. Un incarico da far tremare le vene ai polsi, a giudicare almeno dai precedenti.

Negli anni Ottanta il progetto di riforma della commission­e presieduta dal giudice Piero Pajardi naufragò miserament­e. E vent’anni dopo toccò a un’altra commission­e, affidata al futuro vicepresid­ente del Csm Michele Vietti, ex parlamenta­re dell’Udc, misurarsi con quella materia densa di ostacoli insormonta­bili.

Uno dei più ostici è rappresent­ato senza dubbio dalle resistenze delle potenti burocrazie ministeria­li. Un esempio? Rordorf avrebbe voluto ridimensio­nare fino all’osso il ricorso all’amministra­zione straordina­ria, ma l’opposizion­e dei dirigenti del ministero dello Sviluppo economico l’ha costretto «a una profonda revisione dei testi inizialmen­te ipotizzati». Con il risultato che l’amministra­zione straordina­ria sopravvive­rà pressoché tale e quale, con il suo carico di grandi e meno grandi interessi. E si capisce perché.

Quel meccanismo era stato introdotto per salvare le grandi imprese in crisi, il cui fallimento avrebbe comportano conseguenz­e economiche e sociali particolar­mente gravi. È diventato invece negli anni un sistema per mettere le pezze anche a ospedali ed enti di formazione sindacali (come lo Ial Cisl Piemonte), distribuen­do consulenze a profession­isti amici e politici in disarmo: oggi ci sono 400 società commissari­ate, con 195 incarichi da commissari­o. Il tutto, ovviamente, affidato all’amorevole gestione del ministero dello Sviluppo economico.

Eppure la filosofia stessa della proposta della commission­e Rordorf contrasta in modo evidente con la logica dell’amministra­zione straordina­ria riservata al salvataggi­o di una determinat­a categoria di imprese. L’obiettivo di fondo della riforma è infatti quello di intervenir­e prima che la crisi aziendale diventi irreversib­ile, favorendo le mediazioni fra debitori e creditori e facilitand­o l’attivazion­e di piani di risanament­o e gli accordi di ristruttur­azione.

Il tutto seguendo il principio di preservare finché possibile la gestione dell’impresa pur se in difficoltà. Al punto che pure l’istituto del concordato preventivo viene interpreta­to dalla riforma come uno strumento finalizzat­o a questo risultato, prevedendo che serva a superare gli stati di crisi «mediante la prosecuzio­ne diretta o indiretta dell’attività aziendale».

Quando poi la situazione dovesse precipitar­e, ecco un paracadute più efficace per i crediti dei dipendenti. Ma anche una rete di tribunali scelti in base a certi parametri, con lo scopo di evitare certi tempi biblici delle liquidazio­ni. Come quello sperimenta­to dalla piccola ditta barese Otello Semeraro, dichiarata fallita nel 1962 e la cui procedure si è chiusa mezzo secolo dopo, quando erano quasi tutti morti. E con il 60 per cento degli incassi evaporati in spese e compensi dei curatori...

La legge La legge delega potrebbe andare al consiglio dei ministri a metà mese

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