L’UNIONE EUROPEA HA BISOGNO DI UNA VERA LINGUA COMUNE
Si dice che il diavolo sta nei dettagli, spesso in finanza è nascosto nei termini inglesi. Due esempi su tutti: il «bail in», letteralmente «salvataggio dall’interno», che da quest’anno cambierà profondamente i rapporti tra risparmiatori e banche; e il «fiscal compact», accordo semi-blindato il quale, a dispetto del nome da gioco di società, ha inchiodato i governi all’austerità di bilancio. Nel primo caso un italianissimo «autosalvataggio» avrebbe spiegato meglio a Parlamento e cittadini cosa accadrà di brutto ai clienti di un istituto di credito prossimo al fallimento. Nel secondo esempio, è di tutta evidenza che un bel «vietato spendere» sarebbe stato molto più chiaro, anche se sul punto gli esecutivi hanno trovato il modo di aggirare l’ostacolo. Il problema della decrittazione degli oscuri termini burocratici di Bruxelles vale per tutti i Paesi e non è solo un nodo tecnico perché esso ostacola di fatto la libera circolazione delle idee.
Mai come oggi in Europa c’è invece bisogno di confrontarsi senza traduttori che rendono tutto una Babele comprensibile solo agli sherpa degli Ecofin. Non bastano una moneta unica, una politica unica, una difesa unica. Serve anche un «linguaggio unico», accessibile a tutti i 500 milioni di abitanti dell’Unione. Tanto per dire, l’Isis una lingua ce l’ha e non è nemmeno uno Stato.
Non è più sufficiente sapere l’inglese o il francese, occorre tradurre nel giusto modo i cambiamenti epocali che coinvolgono i propri amministrati, conoscere l’idioma delle diverse culture, utilizzare quei vocaboli unici che rendono viva una comunità fatta di storie tanto diverse. E, soprattutto, una volta recepita la norma europea, è necessario avere consapevolezza delle conseguenze. Basta guardarsi allo specchio di questi ultimi 14 anni.
I Paesi fondatori dell’euro hanno ceduto sovranità monetaria; le banche centrali stampano moneta su input della Bce, non stabiliscono più il livello dei tassi e vigilano solo sulle banche medio-piccole; tutti gli istituti di credito sottostanno ai diktat di Francoforte sui requisiti di capitale per evitare nuovi crac; i risparmiatori scoprono solo ora che se il loro sportello fallisce dovranno salvarlo di tasca propria mentre, nello stesso tempo, non conoscono chi, da qui al 2020, effettivamente garantirà il rimborso dei loro soldi depositati sul conto corrente.
Può reggere una moneta unica che di unico ha solo il conio, ma quando si tratta di salvarla in forma di deposito, banca o titolo di stato, ridiventa lira, franco, marco? No. E l’hanno capito per primi Matteo Renzi e François Hollande, che giustamente hanno incalzato Angela Merkel affinché si apra almeno la necessaria discussione sulla tutela unica dei depositi. Senza quella non c’è un solo euro ma tante monete di affidabilità differente a seconda della solidità della banca dove vengono custodite. E, in assenza di una lingua madre, come accade dalla fondazione negli Stati Uniti, non c’è modo di sentirsi davvero uniti anche solo per cantare un Inno alla gioia. Al prossimo Consiglio europeo si dovranno affrontare di petto due argomenti chiave quali la strategia che di qui al 2024 ci porterà ad un sistema comune di garanzia dei conti correnti e una exit strategy per ridurre l’esposizione degli istituti di credito in titoli sovrani. Ben fatto, se accadrà. Se fosse possibile, per dare anima a questi provvedimenti fondamentali per la sopravvivenza dell’Ue, servirebbe però una nuova Convenzione che riaprisse il capitolo della Costituzione europea e che questa fosse scritta in una lingua nuova, quella della Nuova Europa. Non è un progetto troppo ambizioso. Questa volta ci viene in soccorso proprio un’espressione anglosassone: «when you’re in trouble think big». Se hai problemi, pensa in grande. E usa una sola voce.