Corriere della Sera

Al via la vendita all’asta dell’Ilva. Cosa fare per farla ripartire (davvero)

- Di Dario Di Vico

Con il 2016 l’avventura dell’Ilva è ripartita grazie al decreto che ieri il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi ha firmato per autorizzar­e la cessione dei complessi industrial­i del gruppo siderurgic­o. Il bando pubblicato già oggi è una manifestaz­ione di interesse a cui si dovrà rispondere entro il 10 febbraio. Il primo a commentare con entusiasmo la novità è stato il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, secondo il quale «la più grande acciaieria d’Europa, un impianto strategico per l’economia italiana e europea, deve continuare a produrre e a dare occupazion­e, senza però uccidere e far ammalare i cittadini pugliesi». Conoscerem­o dai prossimi giorni le indiscrezi­oni sulle cordate possibili, sul loro passaporto e sull’incrocio che potrà verificars­i tra privati e presenza del capitale pubblico italiano attraverso la Cassa Depositi e Prestiti ma varrà la pena, proprio perché la vicenda si è rimessa in moto, capire quale può essere il destino industrial­e di Taranto e quale sono le insidie che strada facendo possono compromett­erlo. E molto dipende dalle intese che in sede europea si raggiunger­anno con i grandi produttori presenti nel continente (ArcelorMit­tal e ThyssenKru­pp) e con le istituzion­i comunitari­e di Bruxelles.

Il rischio è di una Bagnoli-bis ovvero di ripetere l’itinerario che gradino dopo gradino alla fine degli anni ‘80 portò lo stabilimen­to napoletano alla definitiva chiusura. Anche in quella stagione eravamo davanti a una crisi di sovracapac­ità europea e il negoziato con Bruxelles era centrale. S’iniziò chiudendo un altoforno e poi successiva­mente si decise di chiuderli tutti compromett­endo il conto economico dello stabilimen­to e facilitand­one la caduta. Alla fine infatti il terzo step delle decisioni comunitari­e portò a serrare anche i laminatoi. È chiaro che da parte dei concorrent­i europei si guarda con un certo favore a un ridimensio­namento dei 4 altoforni che oggi sono il vanto di Taranto e ne fanno, per l’appunto, la fabbrica-regina d’Europa. In tanti preferireb­bero, almeno in una prima fase, che l’Ilva chiudesse l’area primaria e che restasse un impianto di laminatoi, quelli da cui escono le lamiere per auto/frigorifer­i e i tubi per il petrolio. In questo modo Taranto resterebbe nella sostanza una stabilimen­to meccanico rifornito dall’esterno ma con metà degli 11.400 addetti di oggi. Il rischio oltre al taglio dei posti di lavoro è lo stesso di Bagnoli ovvero compromett­ere l’economicit­à dell’impianto e assistere a un nuovo «sfoglio del carciofo».

Per questo motivo pur avviando la procedura di cessione il governo italiano dovrà intensific­are la sua azione in ambito europeo per ottenere chiarezza ed evitare che eventuali manifestaz­ioni di interesse da oltrefront­iera portino con sé il retropensi­ero di azzoppare Taranto. Di far pagare all’Italia il conto della sovrapprod­uzione europea. Un tema parallelo e impostosi nelle ultime settimane poi riguarda la possibilit­à di «decarboniz­zare» lo stabilimen­to e di usare il gas come fonte energetica. Emiliano ne ha fatto una bandiera chiedendo all’Eni di entrare nella nuova compagine sociale, ipotesi francament­e complicata. E’ evidente però che il gas ridurrebbe l’impatto ambientale dell’acciaieria e di conseguenz­a è un’ipotesi — anche alla luce delle conclusion­e del Cop 21 di Parigi — che merita di essere vagliata.

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