I PREGIUDIZI DI LINCOLN
CANCELLÒ LA SCHIAVITÙ MA NON CREDEVA ALLA PARITÀ DI DIRITTI TRA BIANCHI E NERI
Una biografia di Tiziano Bonazzi (Il Mulino) dedicata al più grande presidente degli Stati Uniti, che riuscì a salvare l’Unione a prezzo di una guerra terribile In quella situazione tragica la sua arma più efficace fu l’uso sapiente dell’ironia
Accettazione delle proprie incertezze e uso sapiente dell’ironia furono le caratteristiche principali del più grande presidente della storia degli Stati Uniti. È la tesi di uno straordinario libro di Tiziano Bonazzi, Abraham Lincoln. Un dramma americano, che sta per essere pubblicato dal Mulino. Bonazzi non si occupa esclusivamente della Guerra civile (1861-1865) alla quale, in tempi più o meno recenti, sono già state dedicate pagine molto interessanti da Arnaldo Testi in La formazione degli Stati Uniti, Robert H. Wiebe in La democrazia americana (entrambi per Il Mulino), Raimondo Luraghi in Storia della guerra civile americana (Bur) ed Eric Foner in Storia della libertà americana (Donzelli). Ma il testo di riferimento per Bonazzi sembra essere, piuttosto, un classico del teologo luterano Reinhold Niebuhr, L’ironia della storia americana, pubblicato in Italia da Bompiani. In che senso?
Per Lincoln, scrive Bonazzi, fu importantissimo il senso dell’ironia «che gli consentiva di gestire la lacerante contraddizione tra la libertà che amava con passione e l’impossibilità di credere in essa». Con «l’ironia, le battute, il comico capovolgimento delle situazioni, Lincoln alleggeriva le tensioni sue e degli altri e nascondeva il suo vero pensiero nella tradizione del furbo popolano di buon senso, ma forse si faceva anche beffe di se stesso». Il suo humour «era un codice con cui velatamente trasmetteva la sua impotenza e si difendeva da essa». All’utopia opponeva l’incertezza, «non come titubanza, ma come modo per aggirare l’inconoscibilità delle cose attraverso il lento approfondimento delle questioni e l’attesa, una tattica che lo portava a volar basso e però gli consentiva di sfuggire sia all’entusiasmo, sia alla disperazione».
Non fu facile la situazione in cui Lincoln si trovò quando giunse al potere: alle elezioni presidenziali del 1860 vinse con 1.866.452 voti e i suoi avversari ne ebbero, frazionati, il 20 per cento in più: Douglas 1.376.957, Breckinridge 849.781, Bell 588.879. Negli Stati del Sud ottenne solo il 2 per cento. E fu subito la secessione del South Carolina, a cui si sarebbero aggiunti, a gennaio del 1861, Georgia, Alabama, Florida, Mississippi, Louisiana e Texas, che scelsero come presidente alternativo Jefferson Davis. La guerra che ne seguì fu assai complessa: il Nord subì numerosi rovesci militari, la stessa Washington fu più volte in pericolo, il Sud — a dispetto della disparità di abitanti: nove milioni e mezzo (di cui quattro milioni di schiavi) contro i ventidue « settentrionali » — mostrò un’inaspettata vitalità. I morti ammontarono a una cifra spaventosa, oltre seicentomila (circa la metà per dissenteria). Francia e Gran Bretagna attesero la fine delle ostilità prima di schierarsi. E in Europa non pochi considerarono quella dei sudisti come una guerra di liberazione meritevole di una qualche simpatia.
Solo un uomo come Lincoln poteva far fronte a una situazione così complicata. Nato nel 1809 in una fattoria del Kentucky da una famiglia che sette anni dopo si sarebbe trasferita nell’Indiana, visse in condizioni disagiate fino all’età di trent’anni. Sua madre morì giovane per il latte infetto da mucche ammalate di brucellosi. Il quinquennio che Lincoln trascorse poi a New Salem, dove era andato a vivere nel 1831, si risolse, secondo Bonazzi, in una «pirotecnica serie di tentativi di uscire dal mondo contadino che non amava e di affermarsi in mestieri borghesi». Fu un vivace barzellettiere, capace di affrontare da solo una gang di bulli, ma anche incline alla depressione.
Era irriverente nei confronti della religione a dispetto dell’appartenenza dei suoi genitori a una Chiesa battista, la Little Pigeon Church, che non riconosceva alcuna autorità tranne la lettera della Bibbia: secondo molti testimoni, da ragazzo scrisse un’operetta ferocemente anticristiana, che successivamente i suoi amici si affrettarono a distruggere per evitare che lo intralciasse nella carriera politica. Per molto tempo lavorò come giornaliero nei campi, ma tentò anche la via del commercio, mettendo su un emporio che presto fallì, lasciandolo indebitato a lungo (lui però restituì i soldi fino all’ultimo dollaro, guadagnandosi così per il resto della vita il nomignolo «Honest Abe»).
Ebbe un grande amore a New Salem per Ann Rutledge, figlia del fondatore della cittadina, che però morì quasi subito, nel 1835, probabilmente di tifo. Poi nel 1839 Lincoln conobbe l’«energica e ambiziosa» Mary Todd, figlia di un ricco piantatore di Lexington nel Kentucky, con la quale si fidanzò, tentennò, ruppe il fidanzamento, ma poi, tornato alla carica, la sposò nel 1842.
Sono gli anni in cui inizia la sua vita politica, che ha una tappa fondamentale nel biennio da deputato whig (1846-1848). In quegli anni gli Stati Uniti combattono una dura guerra contro il Messico (alla quale Lincoln si dichiara contrario) che si conclude con la loro vittoria. Reid Mitchell in La guerra civile americana (Il Mulino) spiega alla perfezione come e perché l’allora presidente, il democratico James K. Polk, in quel momento scelse la via del compromesso con la Gran Bretagna per le questioni di confine con il Canada e della guerra, invece, con il Messico. La guerra con il Messico, in sostanza, allargava l’area degli Stati schiavisti. Henry David Thoreau scrisse La disobbedienza civile (che avrebbe avuto grande influenza sul pensiero di Gandhi e di Martin Luther King) contro il conflitto armato con il Messico, e altri nordisti dichiararono che quella di Polk era, sotto un manto di dissimulazione, «una misura a favore della schiavitù».
Fu questa anche l’opinione di Lincoln nel corso della sua breve stagione politica della seconda metà degli anni Quaranta. Terminata la quale tornò a Springfield, nello Stato dell’Illinois, dove aprì uno studio di avvocato. Ma, raccontò il suo partner e biografo William Henry Herndon, ancorché le cose andassero bene, soffriva di crisi depressive e gli erano di sollievo solo i figli che portava al lavoro con sé: «Quei viziati dei bambini», riferì Herndon, «buttavano per aria l’ufficio, spargevano i libri dappertutto, rompevano le penne, rovesciavano l’inchiostro e facevano pipì liberamente sul pavimento». Senza che lui reagisse in alcun modo. Anzi assisteva a questo caravanserraglio con un sorriso divertito.
È in questa fase che si fa strada il tema dell’abolizione della schiavitù. Bonazzi precisa che «il lavoro schiavo, ritenuto meno efficiente di