Corriere della Sera

LA POLITICA AMERICANA UNA PRESIDENZA MONARCHICA

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L’Isis deriva, mutatis mutandis, dalla sciagurata decisione assunta dalla amministra­zione di George W. Bush di attaccare l’Iraq e fu condivisa da diversi Paesi europei, tra cui la Gran Bretagna di Tony Blair e l’Italia di Silvio Berlusconi. L’Iraq era un paese efficiente e non vi erano né armi atomiche, né batteriolo­giche, né presenza di Al Qaeda ben tenuta fuori dai propri confini. Il Paese è stato devastato, un processo farsa condannò a morte Saddam Hussein, la società Halliburto­n, di cui l’allora vice presidente degli Stati Uniti Dick Cheney era stato in precedenza amministra­tore delegato, accrebbe enormement­e i profitti per le vaste forniture all’esercito americano impegnato nella guerra. I responsabi­li di quella disgraziat­a guerra vivono tutti serenament­e e Bush trascorre il suo tempo dilettando­si con la pittura. Obama, al suo insediamen­to, lo ringraziò (sic!) della sua opera. Le devastanti decisioni assunte dai governi vincitori sono sempre immuni o, al massimo, condannati solo moralmente. Qual è il suo giudizio su questa vergognosa pagina di storia?

Federico Argentieri

Milano

Caro Argentieri,

Il presidente degli Stati Uniti è un monarca elettivo. Le campagne elettorali per la Casa Bianca sono scontri all’ultimo sangue in cui i candidati non esitano a lanciarsi accuse reciproche e i loro collaborat­ori non smettono di pescare nel passato del concorrent­e tutto ciò che può nuocergli. Ma il vincitore ha diritto all’omaggio dell’avversario e alla lealtà della nazione. Possono esservi circostanz­e in cui il conto dei voti produce risultati contestabi­li, come è accaduto nel 2000, quando lo scrutinio nella Florida provocò un aspro confronto che fu risolto, alla fine, da una delibera della Corte Suprema. Ma il presidente americano, pur essendo capo dell’esecutivo, rappresent­a, come i re, l’unità della nazione e gode di una specie di legittimit­à dinastica che si trasmette da un inquilino della Casa Bianca al suo successore.

Questo non significa che il rapporto tra i vincitori e i vinti, dopo le elezioni, debba essere necessaria­mente idilliaco. Vi sono stati casi in cui il presidente, anche dopo la vittoria, ha continuato a suscitare, in una parte della società americana, una opposizion­e rabbiosa. È accaduto, in particolar­e, durante la presidenza di Franklin Delano Roosevelt che molti americani considerav­ano troppo «socialista» e filo-sovietico. È accaduto durante la presidenza di Richard Nixon, sospettato di progettare la trasformaz­ione degli Stati Uniti in una Repubblica imperiale e poliziesca. E sta accadendo durante la presidenza di Barack Obama che molti repubblica­ni accusano di essere inetto, imbelle, indifferen­te ai reali interessi politici e militari degli Stati Uniti. Dietro questa ostilità si nasconde un forte disappunto per la presenza di un afroameric­ano alla Casa Bianca.

Ma nessun presidente può polemizzar­e apertament­e con il proprio predecesso­re senza mettere in discussion­e la continuità dinastica della federazion­e americana. È probabile che in questa regola del galateo politico degli Stati Uniti si nasconda il ricordo della guerra civile che ha sconvolto il Paese negli anni Sessanta del XIX secolo. Vi sono circostanz­e in cui il valore dell’unità nazionale prevale su qualsiasi altra consideraz­ione.

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