MONDO POSTAMERICANO, UNO SCENARIO NUOVO IN CUI CRESCE L’INSTABILITÀ
La diminuizione progressiva del ruolo globale degli Stati Uniti potrebbe anche non essere un fatto negativo Ma per ora domina un caos devastante e carico di presagi sinistri
«Uno dei rischi del mondo postamericano — non si stanca mai di ripetere Fareed Zakaria — è che le potenze regionali diventano più importanti, ma non per questo si comportano in modo più strategico o più saggio».
L’assunto trova plastica e drammatica conferma nello scontro tra Iran e Arabia Saudita, assurto nell’arco di pochi giorni a conflitto geopolitico con una forte componente di settarismo religioso in una delle aree più instabili del pianeta.
Il Grande Medio Oriente, quello emerso dal crollo dell’Impero Ottomano e sopravvissuto con qualche scossone per quasi cento anni, è in piena liquefazione. Dopo decenni di stagnazione autoritaria, scandite da fasi di repressione e guerre fra gli Stati della regione, il vecchio ordine è entrato in una fase di cambiamenti tettonici e distruttivi, di cui al momento è impossibile immaginare l’esito. Siria, Libia, Iraq e Yemen sono ormai soltanto campi di battaglia, pozzi di morte e fonti di milioni di profughi.
Il terrore jihadista controlla intere province e manovra da lontano le sue cellule assassine in Occidente. Nessun Paese mediorientale appare immune da una qualche forma virale di instabilità, siano la volatilità dei confini, la crisi dell’autorità statale o lo scontro etnico: non l’Egitto, non la Turchia, il Libano, la Giordania o i ricchi Emirati del Golfo. La doppia lacerazione religiosa, quella sciita-sunnita e quella interna al mondo sunnita tra islamisti e secolaristi, aggiunge due esplosive torsioni settarie, evocando i fantasmi di una guerra di religione, versione levantina della Guerra dei Trent’anni, che vide cattolici e protestanti dilaniarsi per la supremazia in Europa nel Diciassettesimo secolo.
Ora, che all’origine di questo impazzimento ci sia o meno l’intervento americano in Iraq nel 2003, come alcuni sostengono, è in fondo di relativa importanza. È di una certa efficacia in proposito, il sillogismo di un ex sottosegretario di Stato dell’Amministrazione Obama, Philip Gordon, quando ricorda: «In Iraq siamo intervenuti e abbiamo occupato e il risultato fu un costoso disastro; in Libia siamo intervenuti ma non abbiamo occupato e il risultato è stato un costoso disastro; in Siria non siamo intervenuti e non abbiamo occupato e il risultato è un costoso disastro».
Certo, non è detto che la crisi libica e quella siriana si sarebbero prodotte, in assenza del «peccato originale» iracheno. Ma il punto di Gordon è che gli Stati Uniti non possono essere ritenuti i principali, men che meno i soli responsabili dell’attuale caos mediorientale e soprattutto non posseggono più tutte le leve strategiche per risolvere da soli le emergenze della regione.
È sicuramente improprio parlare di assenza americana dal Medio Oriente. Dall’accordo nucleare con l’Iran, ai tavoli negoziali avviati per Siria e Libia, dai raid aerei contro Isis-Daesh agli attacchi mirati con i droni antiterrorismo, gli Stati Uniti sono ancora protagonisti a tutto campo. Ciò che è cambiato è l’approccio: l’Amministrazione ha scelto di fare il cosiddetto «offshore balancing», l’equilibrio da lontano, escludendo operazioni di terra e ricostruzione di nazioni e cercando di coinvolgere maggiormente gli attori regionali.
Ma come spiega Zakaria, potenze regionali più attive non significa necessariamente più responsabili, anzi. Inoltre ha comportato un prezzo l’aver escluso, fosse pure solo come deterrenza, la piena opzione militare. Tanto più se, in corso d’opera, la Casa Bianca ha commesso errori gravi di applicazione, come quando nell’estate 2013 il presidente Obama tracciò l’infausta linea rossa contro Assad, minacciando di intervenire se avesse usato le armi chimiche, salvo poi ignorarla e farsi salvare in corner dall’interessata mediazione russa.
È in primo luogo una questione di percezione: avvertendo distante o distratta la Superpotenza amica, il turco Erdogan autorizza la stolta bravata di far abbattere un caccia russo. E oggi, vedendo un’America meno determinata o addirittura più vicina verso Teheran in virtù dell’intesa nucleare, l’Arabia Saudita si consente un gesto incendiario come la pubblica esecuzione di un imam sciita e addirittura la rottura delle relazioni diplomatiche di fronte alle proteste iraniane.
A venir progressivamente meno è cioè il ruolo globale degli Stati Uniti. In teoria potrebbe anche non essere negativo, se ci fosse una vera e robusta governance multilaterale, specie in una regione così volatile come il Medio Oriente. Ma non siamo, o non siamo ancora, a questo. Nel mondo postamericano, per adesso, domina un caos devastante e carico di sinistri presagi.