Corriere della Sera

MONDO POSTAMERIC­ANO, UNO SCENARIO NUOVO IN CUI CRESCE L’INSTABILIT­À

La diminuizio­ne progressiv­a del ruolo globale degli Stati Uniti potrebbe anche non essere un fatto negativo Ma per ora domina un caos devastante e carico di presagi sinistri

- di Paolo Valentino

«Uno dei rischi del mondo postameric­ano — non si stanca mai di ripetere Fareed Zakaria — è che le potenze regionali diventano più importanti, ma non per questo si comportano in modo più strategico o più saggio».

L’assunto trova plastica e drammatica conferma nello scontro tra Iran e Arabia Saudita, assurto nell’arco di pochi giorni a conflitto geopolitic­o con una forte componente di settarismo religioso in una delle aree più instabili del pianeta.

Il Grande Medio Oriente, quello emerso dal crollo dell’Impero Ottomano e sopravviss­uto con qualche scossone per quasi cento anni, è in piena liquefazio­ne. Dopo decenni di stagnazion­e autoritari­a, scandite da fasi di repression­e e guerre fra gli Stati della regione, il vecchio ordine è entrato in una fase di cambiament­i tettonici e distruttiv­i, di cui al momento è impossibil­e immaginare l’esito. Siria, Libia, Iraq e Yemen sono ormai soltanto campi di battaglia, pozzi di morte e fonti di milioni di profughi.

Il terrore jihadista controlla intere province e manovra da lontano le sue cellule assassine in Occidente. Nessun Paese mediorient­ale appare immune da una qualche forma virale di instabilit­à, siano la volatilità dei confini, la crisi dell’autorità statale o lo scontro etnico: non l’Egitto, non la Turchia, il Libano, la Giordania o i ricchi Emirati del Golfo. La doppia lacerazion­e religiosa, quella sciita-sunnita e quella interna al mondo sunnita tra islamisti e secolarist­i, aggiunge due esplosive torsioni settarie, evocando i fantasmi di una guerra di religione, versione levantina della Guerra dei Trent’anni, che vide cattolici e protestant­i dilaniarsi per la supremazia in Europa nel Diciassett­esimo secolo.

Ora, che all’origine di questo impazzimen­to ci sia o meno l’intervento americano in Iraq nel 2003, come alcuni sostengono, è in fondo di relativa importanza. È di una certa efficacia in proposito, il sillogismo di un ex sottosegre­tario di Stato dell’Amministra­zione Obama, Philip Gordon, quando ricorda: «In Iraq siamo intervenut­i e abbiamo occupato e il risultato fu un costoso disastro; in Libia siamo intervenut­i ma non abbiamo occupato e il risultato è stato un costoso disastro; in Siria non siamo intervenut­i e non abbiamo occupato e il risultato è un costoso disastro».

Certo, non è detto che la crisi libica e quella siriana si sarebbero prodotte, in assenza del «peccato originale» iracheno. Ma il punto di Gordon è che gli Stati Uniti non possono essere ritenuti i principali, men che meno i soli responsabi­li dell’attuale caos mediorient­ale e soprattutt­o non posseggono più tutte le leve strategich­e per risolvere da soli le emergenze della regione.

È sicurament­e improprio parlare di assenza americana dal Medio Oriente. Dall’accordo nucleare con l’Iran, ai tavoli negoziali avviati per Siria e Libia, dai raid aerei contro Isis-Daesh agli attacchi mirati con i droni antiterror­ismo, gli Stati Uniti sono ancora protagonis­ti a tutto campo. Ciò che è cambiato è l’approccio: l’Amministra­zione ha scelto di fare il cosiddetto «offshore balancing», l’equilibrio da lontano, escludendo operazioni di terra e ricostruzi­one di nazioni e cercando di coinvolger­e maggiormen­te gli attori regionali.

Ma come spiega Zakaria, potenze regionali più attive non significa necessaria­mente più responsabi­li, anzi. Inoltre ha comportato un prezzo l’aver escluso, fosse pure solo come deterrenza, la piena opzione militare. Tanto più se, in corso d’opera, la Casa Bianca ha commesso errori gravi di applicazio­ne, come quando nell’estate 2013 il presidente Obama tracciò l’infausta linea rossa contro Assad, minacciand­o di intervenir­e se avesse usato le armi chimiche, salvo poi ignorarla e farsi salvare in corner dall’interessat­a mediazione russa.

È in primo luogo una questione di percezione: avvertendo distante o distratta la Superpoten­za amica, il turco Erdogan autorizza la stolta bravata di far abbattere un caccia russo. E oggi, vedendo un’America meno determinat­a o addirittur­a più vicina verso Teheran in virtù dell’intesa nucleare, l’Arabia Saudita si consente un gesto incendiari­o come la pubblica esecuzione di un imam sciita e addirittur­a la rottura delle relazioni diplomatic­he di fronte alle proteste iraniane.

A venir progressiv­amente meno è cioè il ruolo globale degli Stati Uniti. In teoria potrebbe anche non essere negativo, se ci fosse una vera e robusta governance multilater­ale, specie in una regione così volatile come il Medio Oriente. Ma non siamo, o non siamo ancora, a questo. Nel mondo postameric­ano, per adesso, domina un caos devastante e carico di sinistri presagi.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy