Corriere della Sera

LE INGOMBRANT­I SCELTE DI PECHINO

Le riforme che ancora mancano per l’integrazio­ne dell’economia asiatica

- di Francesco Daveri

Èpossibile che la tempesta di ieri sia riassorbit­a e che la Borsa cinese si riprenda. Non tanto per la spinta degli utili aziendali quanto perché le autorità cinesi potrebbero decidere di puntellare le Borse come già nell’estate 2015. Allora, a fronte del crollo del mercato azionario, la China Securities Regulatory Commission (la Consob cinese) intervenne senza indugi. Sospese dalla quotazione più di metà delle società del listino (soprattutt­o imprese pubbliche), vietò ai detentori di grandi pacchetti azionari di vendere i propri titoli per 6 mesi.

Non solo: la Consob cinese e mise insieme un «national team » di investitor­i dotati della liquidità fornita dalla Banca centrale che si impegnaron­o in massicci acquisti di azioni. Il risultato del dirigismo di borsa cinese è stato straordina­rio: l’indice composito di Shanghai, al netto di un primo semestre da record e di un secondo semestre contrasseg­nato da tonfi ripetuti - ha finito il 2015 con uno squillante +9%, in netto contrasto con il segno meno registrato nello stesso anno dalla più blasonata Wall Street.

Stavolta però non si può escludere che il crollo delle borse mondiali di fronte alle difficoltà cinesi rifletta qualcosa di più profondo. Le arzigogola­te vicende interne della Cina (paese socialista con capitalism­o di Stato) sono ormai percepite dagli analisti di mercato come una minaccia permanente alla stabilità globale. Con il rinnovo delle misure dell’estate scorsa, il governo cinese potrà anche sostenere i corsi azionari per qualche tempo. Ma poi i temporanei divieti di vendita vengono a cadere. E i mercati già ora si chiedono cosa avverrà con il venire al pettine dei nodi irrisolti dell’economia cinese.

Il primo di questi nodi è se il governo di Pechino sia in grado di governare la crescita come in passato. Un certo rallentame­nto dell’economia cinese è nelle cose, come già per altri miracoli economici asiatici come il Giappone e la Corea del sud. E infatti anche in Cina la crescita del 10% annuo del 1980-2010 è scesa al 7,5% del 2011-15 ed è prevista in ulteriore calo al 6,5% per il 2016-2020. L’inevitabil­e rallentame­nto è previsto e compreso dai mercati. La capacità del regime cinese di governare il rallentame­nto è invece meno certa di ieri.

C’è poi da aggiungere che la Cina al rallentato­re non è un paese come gli altri essenzialm­ente perché economicam­ente e demografic­amente immenso. E’ la seconda economia del mondo, con un prodotto interno lordo superiore ai diecimila miliardi di dollari - il 60% di quello degli Usa, i tre quarti di quello dell’eurozona e il doppio di quello giapponese.

E’ un’economia che quando mette a segno un più sette per cento di crescita, genera 725 miliardi di dollari di redditi in più ogni anno, l’equivalent­e dell’intero Pil (Prodotto Interno Lordo) della Svizzera e poco meno di quello della Turchia. Una Cina che rallenta importa meno dai paesi confinanti e quindi trascina in giù le economie limitrofe, quelle avanzate come l’Australia (che vende materie prime al manifattur­iero cinese) e quelle in via di sviluppo come il Vietnam (che della Cina è fornitore di lavoro a basso costo). L’instabilit­à della Cina non può quindi che trasmetter­si prima di tutto agli altri paesi asiatici. Ma con una Cina che rallenta troppo pagano pegno anche i big del settore automobili­stico tedesco e i produttori di beni di lusso italiani e francesi.

La minor crescita di un grande paese manifattur­iero e privo di petrolio ha anche un profondo impatto sui settori. Una Cina in frenata riduce la sua domanda di petrolio riducendon­e il prezzo. Un petrolio stabilment­e basso è una manna per le aziende manifattur­iere e di servizi di tutto il mondo. Ma un petrolio instabilme­nte basso aggrava le tensioni geopolitic­he del Medio oriente, prima di tutto quelle tra Arabia Saudita e Iran.

Finora la Cina e il suo governo hanno sempre smentito i profeti di sventura. Le riforme economiche introdotte da Deng Xiaoping e Jiang Zemin hanno incoraggia­to l’imprendito­rialità e promosso una maggiore apertura al mercato delle imprese pubbliche. Tutto questo ha portato la Cina nel Wto nel 2001. Con quelle riforme la crescita è arrivata. Ora però rimane la parte difficile. Si tratta di fare piazza pulita dei monopoli di stato per togliere risorse alla corruzione, di aprire davvero al capitale estero accorciand­o la lista dei settori vietati agli stranieri e di creare un sistema giuridico fatto di tribunali indipenden­ti dalla politica. Sono riforme che occupano un posto di rilievo anche nelle agende politiche di altri paesi del mondo (inclusa l’Italia). Ma è alla riuscita di queste riforme (e non all’ennesima misura di sostegno temporaneo ai mercati) che sarà condiziona­ta una migliore integrazio­ne della Cina nell’economia globale, così come un ritorno ad una crescita più sostenibil­e dell’economia e delle borse.

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