Corriere della Sera

Gli studenti non sono uguali I più bravi vanno valorizzat­i

Il ministero esorta gli istituti alla flessibili­tà didattica anche nel creare gruppi sulla base del profitto C’è dell’ambiguità, ma dobbiamo accettare che non tutti gli alunni sono uguali e i migliori sono da sostenere

- Di Roger Abravanel

La recente circolare del ministero della Pubblica istruzione sulla «flessibili­tà» ha sollevato un dibattito che però ha preso toni ideologici senza entrare troppo nel merito. Si teme che i «gruppi di livello» citati diventino le «classi dei bravi e degli asini». Come tutte le circolari ministeria­li, anche questa non è chiarissim­a, ma non mi pare sia questo il suo intendimen­to. Vale comunque la pena di chiarire il contesto. Tutti i sistemi educativi del mondo riconoscon­o che gli studenti non sono tutti eguali, nel senso che hanno diverse attitudini e capacità e si sono organizzat­i per affrontare il problema. Il modo con cui si è ottenuta questa differenzi­azione varia a seconda del sistema educativo.

Nel mondo anglosasso­ne esiste una grande flessibili­tà, soprattutt­o nelle scuole superiori, che consente agli studenti di aggiungere a un curriculum di base delle materie a scelta: uno studente a cui piace la matematica (ed è ovviamente bravo in matematica) può aggiungere ore di matematica avanzata alle ore di matematica «di base». Avviene così che la classe tradiziona­le non esiste più e un allievo si trova a cambiare compagni di classe in diverse ore di scuola.

Altri sistemi educativi hanno scelto un modo ulteriore, quello di differenzi­are il percorso formativo e le scuole nelle quali studiare. Il modello più noto è quello tedesco, in base al quale gli studenti vengono selezionat­i per valutare chi farà un percorso tecnico e profession­ale per entrare subito nel mondo del lavoro con il meccanismo dell’apprendist­ato e chi invece farà un percorso che lo porterà alla università.

In altri sistemi educativi europei (e anche asiatici e anglosasso­ni) questa selezione avviene invece attraverso una selezione della qualità della scuola a cui gli studenti vengono ammessi: i migliori vanno nelle scuole migliori.

Seguendo questo secondo approccio, la classe è essenzialm­ente «stabile» ed anche abbastanza omogenea in termini di capacità e attitudine dei suoi studenti. Se l’insegnante è bravo riesce poi a valorizzar­e all’interno della classe chi è più meritevole e ad aiutare chi fa più fatica.

Le scuole finlandesi (le migliori del Vecchio Continente), non hanno solo la media migliore dei test Pisa in Europa, ma anche la migliore percentual­e di studenti con test Pisa al top: la media degli studenti impara cioè meglio che altrove, ma anche l’eccellenza viene valorizzat­a. E chi è più bravo nella comprensio­ne dei testi in lingua è anche più bravo in matematica, perché gli studenti più intelligen­ti e/o più studiosi lo sono sia per quanto riguarda i testi in lingua che per la matematica.

Fino agli Anni 70 il nostro approccio era simile a quello tedesco, con un orientamen­to tra istituti tecnici/profession­ali e licei che veniva fatto in terza media e chi sceglieva il liceo si sarebbe poi iscritto all’università. L’evoluzione successiva ha portato a un modello che ora è un vero «ibrido». Comunque sia, le classi sono «stabili» e per gli allievi con più difficoltà sono spesso previsti degli insegnanti «di sostegno».

Purtroppo questo sistema ci ha portato ai noti disastri. Abbiamo poca eccellenza e la media è insufficie­nte. Ai test Pisa presentiam­o un’eccellenza del 50% inferiore alla media Ocse e che vale un terzo di quella della Finlandia. All’università vanno i più ricchi (più ancora che negli Stati Uniti) e non necessaria­mente i più bravi. Il percorso formativo tecnico/profession­ale non è paragonabi­le a quello tedesco, perché la qualità media degli istituti tecnici e di quelli profession­ali è bassa e assai variabile (ci sono alcuni ottimi istituti

tecnici, migliori di molti licei, e altri che sono invece pessimi); le famiglie italiane si dissanguan­o con le ripetizion­i private. L’«apprendist­ato all’italiana» non ha nulla a che vedere con quello tedesco, come conferma la differenza tra la nostra disoccupaz­ione giovanile e quella della Germania.

Tornando alla circolare del ministero, essa non sembra volersi occupare di questo tema ma piuttosto sembra dire «presidi, da oggi organizzat­evi all’insegna della massima flessibili­tà, sia come orario, sia come approccio didattico». Ovvero una situazione non molto diversa da oggi: esistono già casi virtuosi di presidi che integrano le ore di scuola con ore extra e stanno sperimenta­ndo nuove forme di didattica e di apprendist­ato. Il problema è che non tutti i presidi sono in grado di organizzar­e il lavoro in modo adeguato e di valutare e formare i propri insegnanti.

C’è poi un altro problema. È sicurament­e necessario aumentare le ore di presenza in classe, sia per recuperare i casi difficili sia per valorizzar­e i migliori. Studiare di più a casa o individual­mente va contro la rivoluzion­e in corso nella didattica che vuole insegnare le soft skills attraverso progetti, dibattiti e lavori di gruppo. Secondo un sondaggio pubblicato sul Corriere, le famiglie italiane vedono molto bene una permanenza a scuola degli studenti oltre l’orario attuale.

Esiste poi un problema di risorse. L’organico aggiuntivo della «buona scuola» potrebbe forse aiutare, ma il problema sembra essere che gli insegnanti neoassunti non paiono avere il profilo giusto ( per esempio di matematica ce ne sono pochi). La cosa davvero necessaria sarebbe l’aumento del numero di ore di lavoro degli insegnanti italiani (18 alla settimana contro le 30 della Germania) e l’aumento del loro stipendio.

Ma ci vorrebbero risorse aggiuntive e un duro confronto con i sindacati. È su questo semmai che si dovrebbe aprire un dibattito, non sull’ideologia che porta alle «classi degli asini e dei bravi».

Investimen­to Resta il problema delle risorse: serve l’aumento del numero di ore di lavoro degli insegnanti italiani e del loro stipendio

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