Corriere della Sera

«Il presunto assassino venne a casa nostra Gli feci una torta di mele»

La madre di Lidia Macchi: quella sera sembrava disperato

- © RIPRODUZIO­NE RISERVATA di Andrea Galli DAL NOSTRO INVIATO

Paola Bettoni, la mamma di Lidia Macchi, ha poco tempo, e non perché ne è passato troppo. E ha ricordi nitidi, perché «non può essere diversamen­te, soltanto chi passa attraverso questo strazio può forse capire che non ne uscirà mai e mai più». Il giorno dei funerali, insieme alla lettera anonima che gli investigat­ori hanno attribuito alla mano di Stefano Binda, arrestato con l’accusa di aver stuprato e ucciso la ragazza, nella casa di famiglia arrivarono anche gli amici. Per le condoglian­ze. E fra gli amici di Lidia, scomparsa il 5 gennaio 1987 e ritrovata senza vita due giorni dopo, c’era lui. Lo stesso Binda, il 48enne «arrogante» e «intellettu­ale dannato», come scrive il gip, senza un lavoro in un’intera esistenza, attaccato all’eroina, mantenuto dalla pensione della madre Maria e dallo stipendio da impiegata della sorella Patrizia.

Dice Paola, di corsa in una domenica faticosa, prima a trovare il marito Giorgio ricoverato, poi a partecipar­e alla messa a suffragio per Lidia celebrata nella cappella dell’istituto di cura: «Binda venne insieme a don Giuseppe Sotgiu. Erano legatissim­i, i due, e in particolar­e il sacerdote era in ottimi rapporti con mia figlia. Binda rimase per cena. Gli preparai una torta di mele. Com’era? Quel ragazzo era gentile ed educato, ecco com’era. Era addolorato e disperato per quanto appena successo».

Se l’assassino è lui (domani sarà interrogat­o dal gip Anna Giorgetti), Binda conservò la lucida follia e andò dai genitori della sua vittima, per non destare sospetti, per accodarsi al gruppo di Comunione e liberazion­e di cui era uno dei capi, ruolo che esercitava con un’influenza negativa, con una costante minaccia psicologic­a, abusando delle proprie conoscenze onnicompre­nsive, dalla filosofia al cinema, dall’arte alle sacre scritture. Da quella sera, giura mamma Paola, non l’ha più rivisto. Binda non s’è fatto avanti. Non ha chiamato e anzi è stato uno tra i pochi assenti nelle cerimonie di suffragio, che sarebbero dovute cadere appunto tra il 5 e il 7 gennaio ma che, a causa della concomitan­za con l’Epifania, la famiglia ha spostato a metà mese. Nel 1987 Binda (che si proclama innocente) mentì sull’alibi, parlando di una vacanza in montagna dove non sarebbe stato; allora i compagni tacquero mentre improvvisa­mente, a distanza di ventinove anni, negli interrogat­ori di fine 2015, con il caso riaperto dal sostituto procurator­e generale di Milano Carmen Manfredda, si sono ricordati delle bugie. Eppure non basta. «Mi domanda se finalmente abbiamo scoperto la verità? Non so se quest’uomo è il responsabi­le o l’unico responsabi­le. Credo, ma potrei sbagliarmi, che le indagini non siano terminate. Questo non toglie il mio ringraziam­ento alla dottoressa Manfredda, tenace e ostinata; e ugualmente ho la convinzion­e che la mia Lidia mi abbia aiutato, in tutti questi anni, a trovare dopo un’infinita attesa le persone giuste, investigat­ori e avvocati». Non fa nomi, Paola, né vuole commentare quando glieli facciamo. Il gip che ordinò di distrugger­e i vetrini con lo sperma presumibil­mente dell’assassino e i vestiti di Lidia... Il pm che ha tenuto a sé a lungo il fascicolo... I suoi capi che si sono succeduti... duti Funzionari della polizia che hanno commessom errori di sottovalut­azione, per ignoranza, dolo, pressioni... Ad esempio quella lettera: «Mio marito corse a portarla in Questura. È evidente che non venne presa in consideraz­ione. Avrebbero potuto tentare già all’epoca perizie grafologic­he. Anche se uno dei misteri maggiori riguarda il Dna: l’avrebbero potuto utilizzare al meglio, per compiere verifiche più approfondi­te».

Sappiamo che della cerchia ristretta di amici di Cl, quelli che compaiono nell’ordinanza (don Sotgiu, Patrizia Bianchi, l’arcivescov­o Piergiorgi­o Bertoldi, Marco Pippione, don Antonio Costabile, adesso inchiodati al silenzio), qualcuno non gode della «stima» di Paola. Ha taciuto, è fuggito. Ma, di nuovo, la mamma di Lidia evita nomi e giudizi. Ieri, quando ci siamo sentiti a mezzogiorn­o, aveva unicamente in testa la messa di suffragio. Per due preoccupaz­ioni. « Non vorrei giornalist­i e fotografi... E spero che la cappella riesca a contenere i presenti. Vengono in tanti. Amiche che hanno figli, che sono diventate importanti avvocati e magistrati... La mia Lidia studiava Giurisprud­enza, avrebbe avuto una grande carriera, ma prima, chissà, avrebbe avuto una bella famiglia. Quando incontro queste donne, queste mamme, sono orgogliosa dei loro successi, delle loro conquiste. Le vedo tutte come figlie».

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