Contrordine: procrastinare fa bene, ci aiuta a essere più creativi
Questo articolo è stato commissionato a metà pomeriggio di domenica: quattro ore di tempo per la consegna. Uno spazio sufficiente per scegliere tra due possibilità: mettersi subito alla tastiera e liquidare la pratica, in modo da potersi poi dedicare ad altro; oppure aspettare, guardare dalla finestra, magari scendere a fare due passi, preparare un caffè, leggiucchiare qualcosa in cerca di uno spunto. È un dilemma trasversale, che molti sperimentano quotidianamente; qualunque sia il compito, l’incombenza che ciascuno ha di fronte. Giocare d’anticipo o di rimessa? Il professor Adam Grant, docente di management e psicologia alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania, ha posto la questione in questi termini, sul New York Times di ieri: «Procrastinare un lavoro è considerato un vizio che limita la produttività; ma ho imparato che è invece una virtù che favorisce la creatività». Da buon accademico Grant parte da alcuni dati di «psicologia comportamentale», o semplicemente dall’osservazione delle nostre abitudini: «Più dell’80% degli studenti universitari sono affetti dal virus del rimandare, della procrastinazione, fino a ridursi a lunghe veglie notturne per preparare gli esami. Ma anche circa il 20% degli adulti sono “procrastinatori” cronici». Il professore racconta la sua conversione da pignolo anticipatore a consapevole «procrastinatore», che significa arrivare anche all’ultimo secondo, ma comunque nei tempi stabiliti. Il tema ha una sua, attuale, profondità, ma, in via preliminare, dobbiamo accantonare per un momento gli insegnamenti dei proverbi e del buon senso. A cominciare dall’aforisma cardine dell’efficientismo americano: «Non rimandare a domani quello che potresti fare oggi», frase pronunciata da Benjamin Franklin, Padre fondatore degli Stati Uniti d’America e inventore del parafulmine. Il Prof. Grant, invece, si è convinto che il «procrastinare» sia uno stato d’animo fecondo per la creatività. Sul New York Times ripercorre, quindi, le sue giornate di giovane studente, ossessionato dall’obiettivo «frankliniano» di cominciare presto e finire ancora prima. Poi, osservando i suoi allievi, ha chiesto loro perché la tirassero sempre in lungo. Si è sentito rispondere: «Perché così c’è più spazio per riflettere, per ripensare le cose, c’è più creatività». Dopo una serie di verifiche Grant è giunto a una doppia conclusione. Primo: spesso la fretta di concludere il più rapidamente possibile nasconde l’ansia di scansare le difficoltà, di ignorare le complessità. Secondo: al contrario lasciare in sospeso un testo, per esempio, consente di rivedere le proprie convinzioni e di migliorare prodotto finale. «Una volta ho buttato giù di getto un articolo — racconta Grant — poi l’ho messo da parte per tre settimane. Quando l’ho riletto, mi sono domandato: ma che razza di idiota ha scritto questa spazzatura?».
Prendere tempo Spesso la fretta nasconde l’ansia di scansare le difficoltà, di ignorare le complessità