Corriere della Sera

BRUCIARE LE FONTI DEI GIORNALIST­I È VIETATO IN EUROPA

In Italia i pm hanno trovato il modo di violare il segreto profession­ale che la Corte di Strasburgo difende Una deriva che lede la libertà di informazio­ne

- di Caterina Malavenda

Metodi I pubblici ministeri hanno notificato ad alcune emittenti televisive un provvedime­nto di sequestro dei video originali delle interviste

Caro direttore, nel tradiziona­le braccio di ferro fra i giornalist­i che tacciono l’identità delle proprie fonti e i magistrati che vogliono identifica­rle, una speciale menzione va ai pubblici ministeri che hanno trovato un metodo per aggirare quel segreto profession­ale che i primi strenuamen­te difendono, ritardando e a volte pregiudica­ndo le indagini.

Hanno, infatti, notificato ad alcune emittenti televisive un provvedime­nto di sequestro dei video originali delle interviste, andate poi in onda con gli accorgimen­ti necessari per occultare, su sua richiesta, l’identità dell’intervista­to.

Un modo per raggiunger­e il miglior risultato possibile, identifica­re la fonte, aggirando i soliti fastidiosi ostacoli, posti dall’autore, visto che gli editori non hanno alcun segreto cui appellarsi e potrebbero persino provare una certa irritazion­e non innocua per i loro giornalist­i.

La notizia è passata quasi sotto silenzio, con qualche meritoria eccezione e con l’intervento di Federazion­e della stampa e Consiglio nazionale, che hanno emesso comunicati, sollecitan­do il Consiglio superiore della magistratu­ra e l’Associazio­ne nazionale magistrati a battere un colpo, rimasti more solito senza risposta.

Viene, perciò, da chiedersi se valga la pena di parlarne, se neppure i diretti interessat­i avvertono la gravità del problema che questa iniziativa solleva, al pari di tutte le altre che finiscono per privare il giornalist­a del suo patrimonio più prezioso, la fiducia delle sue fonti.

Iniziative, superfluo dirlo, formalment­e in linea con le norme, ma di fatto sconfessat­e, come ben sanno coloro che ciò nonostante le adottano, dalla Cassazione e dalla Corte di Strasburgo, dirette come sono a vanificare il segreto profession­ale.

Si va dalla richiesta diretta di rivelare la fonte, siccome essenziale per le indagini, seguita, in caso di rifiuto, dalla condanna — poi annullata in terzo grado — del giornalist­a per reticenza, all’uso di sofisticat­e tecniche invasive di sequestro — censurato dalla Suprema Corte — che duplicano l’intera memoria di un computer, la rubrica del cellulare o le email.

Più sofisticat­a l’idea di incriminar­e, per ricettazio­ne, il giornalist­a che pubblica un documento segreto, quindi ottenuto da chi ha commesso un reato dandogliel­o, perché avrebbe agito «per un suo fine di profitto, ossia per la realizzazi­one dei suoi articoli», accusa mossa di recente, fra gli altri, al giornalist­a Agostino Pantano, così assimiland­olo, in una commistion­e che offende, a chi ricetta un’auto rubata per rivenderla.

Ora il ricorso all’intervento diretto sull’editore con l’acquisizio­ne oggi di un video, domani di ciò che si trova nell’archivio centrale o sul server comune che processa le email in entrata o in uscita, con la progressiv­a erosione di un diritto, già assai precario, riconosciu­to solo ai giornalist­i profession­isti — e Dio solo sa quanti siano in Italia quelli che fanno i giornalist­i senza esserlo — e solo fino a quando un giudice non li sollevi dal segreto, imponendo loro di rivelare la propria fonte.

Iniziative diverse, nessuna delle quali, però, se non censurata dai giudici italiani, supererebb­e il vaglio della Corte europea, che impone la tutela del segreto profession­ale anche per gli stagisti e condanna i Paesi membri che, in modo più o meno surrettizi­o, abbiano consentito ai loro giudici di mettere a rischio la protezione delle fonti, «pietre angolari» della libertà di informazio­ne, così dissuadend­ole dall’aiutare i giornalist­i ad informare il pubblico.

Ancora nel 2009 fu l’Olanda ad essere condannata (ricorso numero 38224/03 Sanoma) per aver consentito ai suoi giudici di incriminar­e un editore per costringer­lo a consegnare il cd-rom di un suo giornalist­a, così risalendo alle sue fonti, che debbono essere, invece, tutelate anche in via indiretta.

Ed allora certo che vale la pena di continuare a parlarne, se serve a dissuadere qualche pubblico ministero dall’adottare provvedime­nti «contro» l’Europa, che saranno annullati, ma troppo tardi per la fonte, oramai bruciata; o a indurre qualche lettore a riflettere di quanti scandali non avrebbe saputo nulla, se i giornalist­i non avessero potuto contare su fonti, cui hanno garantito l’anonimato; o a costringer­e ciascuno di noi a fermarsi e riflettere su quanto sia preziosa e fragile la libertà di informazio­ne.

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