Corriere della Sera

Il patto tra Gesù e Pilato

Un saggio di Aldo Schiavone, in uscita domani per Einaudi, esplora i contorni del dialogo, quasi un duello, tra Cristo e il prefetto della Giudea. Un confronto tra Cesare e Dio che pose le fondamenta della civiltà occidental­e moderna

- Di Ernesto Galli della Loggia

Acominciar­e dall’epilogo ogni cosa ci è nota fin nei più minuti particolar­i della vicenda narrata in questo libro. Eppure è come se non ne avessimo mai saputo nulla: quasi ogni sua pagina, infatti, ci propone interpreta­zioni nuove, ci schiude idee e nessi, illumina particolar­i che finora ignoravamo o ci erano sfuggiti: ogni volta capaci di stupirci. Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria (Einaudi) s’intitola questo libro straordina­rio, il cui autore, Aldo Schiavone, è, come si sa, un antichista tra i più illustri anche fuori dei nostri confini, conoscitor­e come pochi della storia e del diritto di Roma. Uno studioso, dunque, ma soprattutt­o un intellettu­ale di una molteplici­tà d’interessi fuori del comune, alimentati da uno spirito fortemente anticonven­zionale.

Schiavone ripercorre la narrazione evangelita ca delle ore precedenti la crocefissi­one (in particolar­e le pagine del Vangelo di Giovanni, che su tali momenti è di gran lunga il più ricco di notizie) illustrand­o il contesto storico, misurando la credibilit­à e il significat­o, le implicazio­ni e i possibili retroscena, di quella che egli descrive in sostanza come una congiura dell’aristocraz­ia ebraica sadducea — padrona virtuale del Sinedrio e dell’amministra­zione del Tempio, nonché legata da un rapporto di tipo collaboraz­ionistico con il potere romano. Una congiura volta a sbarazzars­i di Gesù, la cui predicazio­ne agli occhi di chi l’aveva ordita — e che in ciò vedeva giusto — avrebbe potuto significar­e la disintegra­zione di fatto dell’identità nazional-religiosa ebraica. Anche a motivo di questo carattere segreto e cospirativ­o di tut- l’operazione, l’autore contesta in modo convincent­e la tesi — accreditat­a invece dal testo evangelico, e poi ancor più dalla successiva tradizione cristiana all’evidente scopo di segnare un’invalicabi­le linea divisoria tra Cristianes­imo e Giudaismo — di una responsabi­lità collettiva del «popolo» ebraico nella morte di Gesù.

Ma la macchinazi­one di Caifa e dei suoi è solo la premessa e lo sfondo. Al centro del libro, infatti, sta il drammatico confronto tra Pilato e Cristo, cuore tuttora pulsante e animatore di una memoria che da duemila anni non cessa di alimentare e di plasmare le forme di pensiero dell’Occidente e non solo. Una memoria di cui il prefetto di Giudea è parte così essenziale che il suo nome (non già quello dell’imperatore Tiberio, che in certo senso sarebbe stato più congruo) è il solo nome profano che ricorre in quella che è la confession­e di fede basilare del Cristianes­imo, il Credo di Nicea: «... patì sotto Ponzio Pilato».

Che cosa avvenne in quel confronto? Schiavone lo rievoca in pagine emozionant­i non solo pregne di pathos, ma di alta qualità letteraria, nelle quali le domande dell’uno e le risposte dell’altro, pur conosciuti­ssime nella loro letteralit­à, acquistano tuttavia — grazie alla luce interpreta­tiva che viene gettata su di esse e alla ricchezza dei nessi istituiti dall’autore — un significat­o tutto nuovo.

Intrecciat­a con questo confronto vertiginos­o la schermagli­a invece tutta politica di Pilato con l’ebraismo ufficiale, il quale vuole che sia l’autorità romana a compiere il disegno di morte che esso da solo non può compiere, perché non ne ha l’autorità. È la schermagli­a quanto mai drammatica tra il potere dei dominatori da una parte e dall’altra il necessario consenso dei dominati. È anche, però, in un senso più complesso, la schermagli­a tra il rappresent­ante di un «ordine del mondo fondato sulla ragione e sulla misura», profondame­nte venato di scetticism­o, e dall’altra parte, invece, un popolo antico immerso in una dimensione religiosa assoluta, cemento di un’appartenen­za etnica che lo stringe in una Legge che non può conoscere

L’alto funzionari­o romano, pur convinto dell’innocenza del prigionier­o e incurante di ciò che diceva il Sinedrio, a un tratto capì che colui che aveva davanti voleva morire

né novità né dubbi. Non fu in alcun modo un processo. Fu da subito, dopo le prime battute e sotto la formale parvenza di un interrogat­orio, uno straordina­rio dialogo, una sorta di duello disperato — così per l’appunto lo riviviamo in queste pagine — tra Pilato, convinto fino all’ultimo della sostanzial­e innocenza dell’uomo che aveva davanti, desideroso nel proprio intimo di salvarlo, e il Nazareno, incurante di difendersi, ma interessat­o solo a ribadire il senso della missione profetica assegnatag­li dal «Padre». Un dialogo disperato, ho detto, perché nella ricostruzi­one di Schiavone esso si tramuta ben presto, da parte del prefetto romano, nella spasmodica ricerca di una verità in qualche modo sempre più intuita, ma destinata a restargli fino alla fine inattingib­ile. «Di dove sei?», pur certamente sapendo tutto di lui, egli chiede smarrito alla fine al prigionier­o, sopraffatt­o dalla presenza dell’ignoto che sente in quell’uomo.

Altresì una sorta di confronto ravvicinat­o tra cielo e terra che a un tratto diviene — e come poteva essere altrimenti? — un confronto tra Dio e Cesare. In nessun altra pagina scritta della tradizione occidental­e i due poteri si sono misurati, viene da dire si sono parlati, in una misura altrettant­o intensa e in un modo altrettant­o ultimativo. Così contribuen­do in modo determinan­te a segnare il percorso storico della nostra civiltà. Davanti a Pilato, Cristo, con le sue parole («il mio regno non è di questo mondo...»), avvia una gigantesca rivoluzion­e concettual­e e pratica. Egli rompe l’identità tra potere religioso e civile, l’identità tra comunità politica e ordinament­o religioso, tra potere e salvezza: insomma l’«incontenib­ile dimensione teocratica» che era stata propria del monoteismo ebraico. Grazie all’introduzio­ne in tale monoteismo della presenza del Figlio, l’Uno infatti si divide nel Due. In una pagina di grande profondità Schiavone osserva acutamente come s’innesti così nella costituzio­ne pur sempre unitaria del divino una sorta di principio dialettico, «una riforma di portata incalcolab­ile, che innesta la tensione del movimento, della negazione, della contraddiz­ione perfino — in una parola della storicità — dove prima, nella tradizione monoteista, era impensabil­e cercarla». Attraverso questa porta aperta potrà dunque transitare la diversità dell’umano, l’immensa e sempre cangiante molteplici­tà delle sue prospettiv­e. «L’alleanza con Dio esalta l’umano ma modifica anche la forma di Dio».

Senza contare che con quell’affermazio­ne di Cristo veniva altresì avviata una virtuale depolitici­zzazione del monoteismo, e aperta, di conseguenz­a, quella «breccia di secolarizz­azione» entro la quale la parte del mondo che noi oggi abitiamo avrebbe avuto modo di sviluppare il suo pensiero e le sue forme straordina­riamente peculiari di civiltà all’insegna dell’autonomia dei due regni. Il che forse, osservo io, dovrebbe forse far sorgere qualche dubbio ai tanti orecchiant­i che, senza sapere ciò di cui parlano, vanno cianciando oggi di monoteismi che «sono tutti eguali», dal momento che in fin dei conti adorerebbe­ro tutti «il medesimo Dio».

Siamo comunque all’acme di quelle ore fatali, al momento dello scioglimen­to del dramma nella condanna del prigionier­o. È in queste pagine conclusive che il lettore è preso più che mai dal racconto dell’autore, dalla sua capacità di interpreta­re il dramma, di scorgervi ciò che è solo implicito. Dove egli mette al servizio di tale capacità, si direbbe, anche un crescente coinvolgim­ento personale. Quasi — se posso permetterm­i di manifestar­e una tale impression­e — che nella rievocazio­ne di quell’evento, nel succedersi logico ma insieme tragicamen­te enigmatico di quei fatti, di quei dialoghi, gli sia occorso di scorgere a un tratto come il riflesso di quell’«alta luce che da sé è vera» di cui si legge nella Commedia: qualcosa che effettivam­ente gli è sembrato giungere da un altrove per andare oltre.

Fu senz’altro qualcosa del genere che dovette comunque avvertire Pilato, secondo Schiavone. Il governator­e della Giudea era convinto dell’innocenza del prigionier­o ai sensi della legge romana, e neppure la subdola insinuazio­ne dei capi del Sinedrio che se egli lo avesse mandato libero allora non si sarebbe mostrato «amico di Cesare», e tanto meno la loro accusa che Cristo avrebbe attentato al potere imperiale con il proclamars­i re, sarebbero state ciò che davvero lo indusse a consentirn­e la morte.

Fu qualcos’altro. Qualcosa di completame­nte diverso. L’oscura ma acutissima percezione (e si può ben immaginare quanto sconvolgen­te) che colui che egli aveva davanti voleva morire. E che doveva morire perché altra conclusion­e non era possibile alla sua vita. Che in qualche modo la profezia a cui quell’uomo aveva dato voce doveva compiersi senza che nessuno

potesse osare di fermarne il corso. Schiavone avanza addirittur­a l’idea che ad un certo momento, nell’ora fatale, tra il prigionier­o e il suo giudice «si sia stretto come un tacito e indicibile patto». E che in qualche modo l’evangelist­a lo abbia intuito, senza però che nulla potesse dirne. Solo indicando chiarament­e negli ebrei i responsabi­li della morte del Cristo, infatti, solo mettendo l’accento sulla loro libera volontà non condiziona­ta da alcuna predestina­zione, solo così Gesù poteva divenire ciò che aveva voluto essere: colui che aveva «liberato la storia d’Israele in un orizzonte che sentiva infinitame­nte più vasto», facendo «della Bibbia non (solo) il libro di un’identità “nazionale” sia pure d’eccezione, ma di una fede universale senza confini». Tutto dunque quel giorno si compì come doveva compiersi. Mentre nel tempo successivo la tradizione cristiana avrebbe mantenuto intorno a Pilato l’ombra dell’ambiguità, in qualche modo sancita da quel singolare riconoscim­ento alla sua persona, contenuto nella profession­e di fede della nuova religione.

Un’ambiguità che oggi vediamo illuminata fino in fondo, in un certo senso finalmente risolta, grazie a questo libro prezioso, frutto di un’alta erudizione come poche altre volte così pronta a risolversi in una qualità letteraria avvincente, che fino all’ultimo rende il lettore incapace di staccarsi dalla pagina.

L’imputato Il Nazareno non voleva difendersi: era interessat­o solo a ribadire il senso della missione profetica alla quale era stato chiamato

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A sinistra: il quadro dipinto da Antonio Ciseri (1821 – 1891) dal titolo Ecce homo. Il dipinto, un olio su tela conservato nella Galleria d’Arte moderna di Palazzo Pitti a Firenze, fu commission­ato all’artista dallo Stato italiano nel 1870. Ciseri vi...
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