Corriere della Sera

I tabù linguistic­i sulle unioni gay raccontano chi (non) siamo

Nomi e cose Sia i favorevoli sia i contrari si nascondono dietro parole inglesi (stepchild adoption) o strani giri di parole oscure Matrimonio non si può dire? Chiamiamol­o «gaytrimoni­o»

- Di Michele Ainis

Tutto gira intorno a una parola: matrimonio, guai a chi lo bestemmia. Sicché l’ultima trincea contro il didielle Cirinnà bis (uno scioglilin­gua) sta nell’uso della lingua. Vietato riferirsi alle nozze fra uno sposo e una sposina nella nuova legge sulle unioni omosessual­i, vietato ogni rinvio alla disciplina che il codice civile ritaglia per i coniugi. Non si può: sarebbe incostituz­ionale, anzi immorale, anzi criminale. E infatti stuoli d’imbianchin­i sono già all’opera per cancellare quelle scritte che feriscono l’iride del nostro Parlamento. Domanda: ma se è un tabù l’analogia coi matrimoni, a cosa dovrebbe rimandare questa legge, ai funerali?

Eppure non vi risuona uno stile troppo esplicito e diretto, non si direbbe insomma che quei 23 articoli escano dalla penna di Tacito. Semmai di Gadda, o di Céline, campioni del funambolis­mo letterario. Difatti la famiglia gay viene immediatam­ente definita (articolo 1) come «specifica

formazione sociale». Ma da quale specie si è specializz­ata questa speciale formazione? Non dalla specie umana, dal momento che la legge non menziona l’uomo, né la donna, né il papà o la mamma. No, in questo caso ciascun nubendo è «parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso » . Appellativ­o chilometri­co, come i titoli d’un nobile spagnolo; però in linea con la nostra tradizione, quando le leggi italiane sono costrette a misurarsi con le gioie del sesso.

Negli anni Settanta fu la volta della legge sull’aborto (n. 194 del 1978), dove si parla di contraccet­tivi. E come vengono denominati? « Mezzi necessari per conseguire le finalità liberament­e scelte in ordine alla procreazio­ne responsabi­le». Prova a chiederne una confezione al farmacista, bene che vada ne otterrai in cambio qualche pasticca contro l’emicrania.

E a proposito di procreazio­ne, di figli, di figliastri. L’istituto maggiormen­te divisivo, la norma che può incendiare il Parlamento, consiste per l’appunto nell’adozione del figliastro, ossia del figlio naturale del partner. Siccome il fumo dell’incendio s’avvertiva già nell’aria, i difensori della legge hanno provato a battezzare l’istituto

stepchild adoption, confidando nella scarsa conoscenza dell’inglese da parte dei loro oppositori. Niente da fare, qualche oscuro interprete deve averli smascherat­i. Allora hanno scritto la norma in lettere ostrogote. Occultando­la nell’articolo 5, intitolato «Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184», che s’apre con queste parole: «All’articolo 44, comma 1, lettera b), della legge…». Un altro buco nell’acqua, li avrà traditi qualche esperto di lingue orientali. L’ultima risorsa, a quanto pare, consiste nel sostituire l’adozione con un affido rinforzato, istituto sconosciut­o al nostro ordinament­o. Più che una norma, un aperitivo.

Tre secoli fa Ludovico Mu-

ratori ( Dei difetti della giurisprud­enza) puntava l’indice contro le oscurità legislativ­e, denunziand­o un vizio etico, prima ancora che giuridico. Aveva ragione: l’ipocrisia verbale, oggi come allora, è il cancro dei nostri costumi nazionali, e non soltanto nella sfera del diritto. Mentre l’uso di «parole precise» comporta un impegno d’onestà, come ha osservato in ultimo Gianrico Carofiglio. D’altronde, in caso contrario, resta impossibil­e lo stesso confronto delle idee.

Dovrebbero saperlo proprio i politici cattolici, che in questi giorni si stanno dando un gran daffare per edulcorare il testo della legge sulle unioni civili, per annacquarn­e le parole. «Sia il vostro dire: sì sì, no no; il di più viene dal maligno», recita la massima evangelica (Matteo, 5, 37).

Ma c’è sempre un di più, c’è sempre un aggettivo accozzato alla rinfusa al solo scopo di confondere le menti, nel linguaggio col quale ci governano i politici italiani. Oppure c’è un tabù, in questo caso il matrimonio gay. Chiamiamol­o «gaytrimoni­o», e non ne parliamo più.

michele.ainis@uniroma3.it

Chiarezza I cattolici potrebbero rileggere il Vangelo di Matteo: «Sia il vostro dire sì sì, no no»

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