Gutgeld: l’Europa ci tratti come gli altri Avanti con la spending, le riforme marciano
Il commissario: «Con l’Unione non è un problema di comunicazione, ma politico»
Yoram Gutgeld non si lascia distrarre dalle fibrillazioni sulle banche italiane. Da mesi porta avanti la sua opera di commissario alla revisione della spesa con tutta la concretezza di cui è capace: oggi stesso riunisce gli assessori e i direttori generali alla Sanità di tutte le regioni italiane per far entrare nel vivo il nuovo sistema centralizzato degli acquisti. Ma come consigliere economico di Palazzo Chigi, vede bene il contesto: «È nell’interesse della Commissione europea avere un’Italia forte - dice - ed è interesse dell’Italia avere una Commissione forte».
Intanto però a molti la «spending review» sembra ferma. Impressione errata?
«Sì, e lo dimostro. Proprio in questi giorni sta partendo operativamente il nuovo sistema degli acquisti di beni e servizi dell’amministrazione. Passiamo da 33 mila stazioni appaltanti a 35. Ovviamente il processo avverrà in modo graduale, ma iniziamo in questi giorni facendo entrare una quota importante degli acquisti della sanità nel nuovo sistema. Parliamo di circa 15 miliardi di spesa. E entro tre anni potremo raggiungere almeno 50 miliardi».
Avete un’idea dei risparmi possibili da quest’anno?
« I risparmi arriveranno quando faremo le gare nuove d’appalto. E le gare diventeranno effettive in modo graduale, in parte quest’anno, in parte il prossimo e via di seguito. A regime, penso che sia realistico
ipotizzare un risparmio attorno medio al 10%».
Lavorate anche su altri fronti della spesa sanitaria?
«Intanto il progetto sugli acquisti non riguarda solo la sanità, ma anche ministeri, comuni e tutte le altre amministrazioni. Ma sulla sanità c’è anche un altro intervento, previsto dalla legge di Stabilità: gli ospedali che non registrano né risultati economici né un’adeguata performance clinica dovranno avviare un percorso di rientro su entrambi i fronti. Vale l’approccio che cerco di dare a tutta la spending review: non si tratta solo di mettere a dieta lo Stato, ma di fargli cambiare stile di vita perché poi non servano sempre nuove diete. L’utilizzo dei costi standard dei Comuni sono un altro esempio».
Tutto avviene su uno sfondo di tensione crescente fra il governo italiano e la Commissione Ue. Come si spiega?
«Ciò che l’Italia sta chiedendo, anche sui conti pubblici, è nelle regole. Non chiediamo niente che non sia previsto. C’è la percezione che su qualche dossier l’approccio della Commissione verso l’Italia sia stato, forse, più rigido rispetto a quello verso altri Paesi. L’Italia chiede solo il rispetto e la considerazione dovuti a un Paese che negli ultimi due anni ha fatto riforme importantissime, come forse pochi altri in Europa. Non a caso stiamo ottenendo risultati apprezzabili di crescita e riduzione della disoccupazione».
Eppure polemiche così accese fra Bruxelles e altri governi si vedono di rado. Un problema di comunicazione?
«Può darsi che in passato la debolezza dell’Italia, dovuta alla mancanza di riforme e a una performance economica nettamente inferiore a quella degli altri, non abbia consentito di chiedere con più forza dei riconoscimenti».
Ma ora perché non cercate di farvi capire meglio in Europa?
«Non credo sia un problema di comunicazione. La questione è politica. Il punto è ottenere a Bruxelles risultati che forse nel passato non siamo stati in grado di raggiungere a causa della nostra debolezza. Lo sottolineo: è un dibattito politico. Temo che discutere di comunicazione sia un pretesto».
Per esempio, state discutendo da più di un anno con Bruxelles sulla «bad bank» per liberare le banche dai crediti in default. Davvero è così importante?
«Sicuramente quello è uno strumento molto utile, soprattutto per le banche piccole, per consentire loro di gestire meglio la questione dei crediti in difficoltà che rendono i loro bilanci più problematici. Quindi sì, è importante».
E non c’è. L’Italia entra nel sistema europeo che fa pagare i risparmiatori in caso di salvataggio pubblico delle banche senza avere risolto il problema.
«Spero che questo negoziato sia agli sgoccioli. Mi auguro sia risolto in tempi brevissimi».
Alcuni dicono che la tempesta sulle banche in Borsa è frutto della tensione fra Roma e Bruxelles. Che ne pensa?
«Abbiamo un sistema bancario solido, fatto per due terzi di banche internazionali, a partire da Unicredit e Intesa Sanpaolo. Per un terzo invece è fatto da
banche più piccole, che hanno bisogno di aggregarsi per diventare più forti e di ricapitalizzarsi per gestire il tema dei crediti in difficoltà. Il governo ha affrontato le riforme strutturali che servono a rendere questo pezzo meno forte del sistema bancario altrettanto forte: abbiamo fatto la riforma delle banche popolari e stiamo per fare quella delle banche di credito cooperativo. Anche per questo chiediamo alla Commissione europea più considerazione».
Però il mercato sembra non fidarsi. Perché secondo lei?
«C’è un contesto internazionale di caduta delle Borse negli ultimi giorni. Ma non è vero che i mercati non si fidano dell’Italia. Piazza Affari nel 2015 ha registrato dei progressi fra i maggiori in Europa. Paghiamo sui titoli di Stato interessi più bassi della Spagna, e prima non succedeva. Nell’ultimo anno la fiducia degli investitori nell’Italia è aumentata notevolmente. Ora c’è un fenomeno congiunturale che riguarda certe banche, per i motivi che ci siamo detti».
Senza «bad bank» il problema è gestibile?
«Credo che la cosa fondamentale siano le riforme strutturali. Questo sì. La bad bank sicuramente sarebbe utile, e credo che ci siano tutte le premesse per farla partire. Ma il punto fondamentale è l’insieme di interventi che abbiamo già lanciato per far crescere l’economia».
Proprio in questi giorni sta partendo il nuovo sistema degli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione In passato la debolezza dell’Italia, le poche riforme attuate, non hanno consentito di chiedere con più forza dei riconoscimenti