Corriere della Sera

Nasce il governo di unità in Libia (ma non ha la fiducia e resta a Tunisi)

Già ostaggio delle lotte fra tribù, il nuovo esecutivo è sostenuto più all’estero che in patria

- DAL NOSTRO INVIATO Francesco Battistini

A un certo punto c’era da scegliere il ministro degli Esteri. A chi darlo? A Tripoli, no: troppo amici di turchi e qatarini. A Tobruk, nemmeno: troppo legati a Egitto ed emiratini. «Stava precipitan­do tutto», racconta un leader del Sud, finché non è uscito il nome di Marwan Ali Abu Sraiweil. L’uomo giusto: famiglia importante della Tripolitan­ia (Ovest) con interessi in Cirenaica (Est).

Questione risolta? Macché: «Qualcuno ha obbiettato che non si poteva dare tanto potere a uno solo...». E allora il premier incaricato Fayez Serraj ha capito. E ingoiato anche questa: il nuovo governo libico d’unità nazionale non avrebbe avuto un solo ministro. Ne avrebbe avuti tre, quante sono le Libie. Un ministro degli Esteri, uno della Cooperazio­ne internazio­nale e un altro per gli Affari arabi e africani. Tutti importanti e nessuno, probabilme­nte, abbastanza. Il governo è deciso. Quando, dove e su chi governerà, è da decidere. Il suk nell’albergone di Tunisi è durato fino all’alba, la notte ha portato consiglio e il Consiglio presidenzi­ale ha consegnato la lista. Con 48 ore di ritardo, ma in tempo per farsi applaudire dalle diplomazie, Serraj e soprattutt­o Martin Kobler, inviato dell’Onu, hanno messo insieme 32 ministri anche se ne volevano solo dieci (9 vanno all’Ovest, 8 all’Est e 7 al Sud), 64 sottosegre­tari e nove consiglier­i presidenzi­ali, due dei quali di Tobruk e già dimissiona­ri. Un governicch­io. Un Cencelli di 105 persone che per ora resta in Tunisia: non ha le condizioni di sicurezza per rientrare a Tripoli; non è affatto detto abbia la fiducia dei due terzi del Parlamento di Tobruk, l’unico legittimat­o a darla entro 10 giorni; non avrà mai l’ok del governo tripolino, costretto a farsi da parte. «Un passo cruciale, seppure in un quadro fragile», ammette l’Italia con Gentiloni. «Un salto in avanti — è realista il tedesco Kobler, 62 anni, lunga esperienza di mediatore fra Balcani e Medio Oriente —, ma abbiamo davanti un duro lavoro».

Per quel che contano i nomi, in un governo che nella risoluzion­e Onu 2259 ha il principale scopo di chiedere alla comunità internazio­nale l’intervento militare, il più importante è il nome che non c’è: niente Difesa al generale Haftar, l’uomo forte di Tobruk e degli americani. Al suo posto il colonnello Al Barghthy, 48 anni, la bestia nera dell’Isis, un tempo amico di Haftar e oggi molto meno. Gli altri ministri dicono poco anche ai giornalist­i libici: l’Interno va al superpoliz­iotto Al Khoja, degli islamisti di Alba libica, il Petrolio e l’Informazio­ne a due cirenaici, mentre ci sono poltrone come i Trasporti (in un Paese dov’è impossibil­e circolare) o la Cultura (l’unica donna della squadra, l’unica libera scelta concessa al premier) assegnate solo per logiche d’equilibrio.

Tre governi, due Parlamenti, troppe tribù. Sostenuto più dall’estero che dai libici, quasi costretto a venire al mondo con una data di scadenza fra 12 mesi, già contestato nelle manifestaz­ioni di Misurata e Bengasi, l’esecutivo di concordia nazionale rischia di rimanere in esilio e sempliceme­nte d’affiancars­i a quelli, ben più radicati, di Tripoli e di Tobruk. «Se Serraj non è riuscito nemmeno a imporre i suoi nomi — commentano da Zintan i miliziani alleati di Tobruk —, come farà ad andare a Tripoli e prendere il controllo della banca centrale o dell’agenzia del petrolio?». Lunedì sera, il premier ci aveva provato almeno col ministro del Tesoro. Ma a mezzanotte ha fatto irruzione nella hall dell’albergo un furibondo deputato, tale onorevole Zambya, con decine di guardaspal­le: «Quello non lo voglio!», ha urlato. La polizia tunisina l’ha cacciato fuori. Ma Serraj ha preso la penna, e depennato.

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