I TRE MESTIERI DI D’AZEGLIO POLITICO, PITTORE, SCRITTORE
Il 150° della morte di Massimo d’Azeglio (Torino, 24 ottobre 1798-15 gennaio 1866) è passato quasi sotto silenzio. Eppure non fu solo pittore e «inventore» di eroi nazionali (Ettore Fieramosca e Francesco Ferrucci) e dei «Maramaldo» (che non mancano mai), ma anche statista di alta rettitudine. Presiedette il governo del Regno di Sardegna che nel 1849-1852 conciliò la monarchia e il Parlamento, con Vittorio Emanuele II e Cavour. Forse non gli viene perdonato che varò la laicizzazione dello Stato (propose persino il divorzio) ma, favorevole a una federazione anziché all’unificazione, ritenne un errore l’annessione del Mezzogiorno e la bramosia di Roma capitale d’Italia? Il silenzio su d’Azeglio (studiato dall’italianista Georges Virlogeux che ne cura l’Epistolario per il Centro Studi piemontesi) precorre quello sulla Terza Guerra per l’Indipendenza del 1866? Sarei lieto di conoscere il suo pensiero.
Aldo A. Mola
Torino
Caro Mola,
Massimo d’Azeglio aveva grandi passioni politiche. Ne dette la prova con la sua inchiesta sui movimenti risorgimentali in Romagna, con la sua partecipazione alla guerra del 1848 nelle file del reggimento comandato da generale Durando e con gli incarichi pubblici nei territori liberati, dopo la Seconda guerra d’indipendenza. Ma non fu mai veramente «politico». Non aveva la spregiudicatezza e la tenacia di Cavour. Era troppo inflessibile, ogniqualvolta una decisione politica gli sembrava contraria ai suoi principi, non aveva il gusto de potere e aveva troppi talenti — letteratura e pittura — a cui preferiva dedicarsi. Ma quando si piegò alle insistenze di Vittorio Emanuele II e accettò la presidenza del Consiglio nel 1849, dopo la disfatta di Novara, fu l’uomo di cui il Paese, in quel momento, aveva bisogno. Mentre gli austriaci, durante le trattative per la pace, insistevano perché il Piemonte revocasse lo Statuto che Carlo Alberto aveva promulgato un anno prima, d’Azeglio difese un regime costituzionale che garantiva ai Savoia, nel quadro italiano, un primato morale. Quando gli austriaci chiesero l’estradizione dei cittadini lombardo-veneti che avevano trovato rifugio in Piemonte, il governo d’Azeglio si oppose. E quando il ministro di Grazia e Giustizia, Giuseppe Siccardi, propose leggi che abolivano il foro ecclesiastico e gli altri privilegi di cui il clero aveva goduto nei territori del Regno di Sardegna, d’Azeglio resistette alle pressioni della Chiesa Romana.
Come lei ricorda, caro Mola, il dissidio con la politica di Cavour e dei suoi successori scoppiò quando d’Azeglio si oppose alla annessione del Sud e al trasferimento della capitale da Firenze a Roma. Allora le sue posizioni parvero miopi e rinunciatarie. Oggi molti potrebbero chiedersi se d’Azeglio non avesse visto meglio di altri quanto sarebbe stato difficile unificare un Paese in cui esistevano regioni che avevano tradizioni storiche e culturali alquanto diverse.
Lo scrittore e il pittore, a mio avviso, meritano più attenzione di quanta ne abbiano oggi. Come il suocero (sposò la figlia di Alessandro Manzoni) fu influenzato dalla lettura delle opere di Walter Scott, ma i suoi romanzi non hanno il respiro dei Promessi Sposi. Eppure appartengono alla storia culturale e civile di una nazione che stava riscoprendo il proprio passato.