LE REGOLE CHE È GIUSTO RIVEDERE
Aleggere i giornali della settimana scorsa si poteva pensare che il mondo si trovasse sull’orlo del precipizio. L’allarmismo della stampa è il riflesso del nervosismo dei mercati, che senza dubbio c’è stato. Ma un distacco dagli eventi di questi giorni e un’analisi più pacata sono necessari.
Vorrei cominciare col richiamare alcuni fatti. Il mercato, innanzitutto. L’andamento del mercato azionario ha un legame tenue con la dinamica dell’economia reale. I modelli economici più semplici ci dicono che il primo anticipa la seconda, ma i fatti smentiscono ciò: i corsi azionari sono influenzati dal cosiddetto premio al rischio. Questo, a sua volta, è difficile da prevedere poiché riflette meccanismi psicologici legati a eccessi di ottimismo e pessimismo. Infatti, i periodi di alta volatilità del mercato sono molto più frequenti delle recessioni che, nelle economie mature, avvengono in media una volta ogni 10 anni.
Il secondo elemento da valutare è la Cina, ovvero un’economia che ha avuto una crescita media del 10 per cento per oltre dieci anni, crescita trainata dall’industria manifatturiera e dalle esportazioni. Quel Paese vive ora una fase di riequilibrio dell’economia verso i servizi e il consumo interno che ne comporta un naturale rallentamento: la crescita nel 2015 è stimata al 7% e nel 2016 al 6,7. Non si prevede un crollo, ma un semplice aggiustamento. Questa diminuzione di qualche punto, secondo le stime della maggior parte degli esperti, avrà un impatto minimo sulla crescita di Usa ed Europa, anche se la Germania è leggermente più esposta.
Veniamo all’Italia. Tutti i segnali dell’economia reale indicano che il 2016 confermerà la ripresa del 2015 anche al di là delle aspettative annunciate pochi mesi fa.
Tutti questi fatti sono rassicuranti, ma ciò non significa che i rischi siano assenti. Passiamo quindi ad esaminare questi ultimi. Per quanto riguarda l’economia reale, il fattore di rischio principale non è a mio avviso la Cina, ma sono gli Stati Uniti. L’economia Usa è in ripresa da più di sei anni e ciò storicamente suggerisce che una recessione non sia lontana. I dati della produzione (non quelli dell’occupazione che li seguono con ampio ritardo e quindi non possono essere usati come indicatore del futuro) continuano a mandare segnali di un progressivo indebolimento dell’economia. Se gli Usa dovessero entrare in recessione tra la fine del 2016 e il 2017, l’Europa seguirebbe dopo qualche mese. Per noi sarebbe troppo presto: abbiamo ancora bisogno di correre per recuperare quanto abbiamo perduto dal 2008 a oggi.
Ma la grande volatilità nei mercati finanziari deriva soprattutto dai movimenti di capitali. E questi sono conseguenza dell’apprezzamento del dollaro combinato a un alto indebitamento dei Paesi emergenti, del calo del prezzo del petrolio e della liberalizzazione in corso del mercato dei capitali in Cina. In una economia in cui i mercati finanziari sono integrati a livello globale e in cui i flussi finanziari sono molto più ingenti di quanto sarebbe giustificato dall’import-export di merci e servizi, anche piccoli cambiamenti nelle aspettative provocano grandi spostamenti di capitali e quindi una volatilità difficile da comprendere sulla base dell’andamento dell’economia reale, ma che su quella stessa economia reale può avere però conseguenze. Da qui il ruolo chiave delle Banche centrali nel garantire liquidità al sistema e calmare le acque.
E l’Italia? L’Italia è finalmente uscita dai giorni più bui e sta consolidando la sua ripresa, ma è appesantita da sei anni in cui ha oscillato tra stagnazione e recessione. I crediti malati sono la conseguenza di questa crisi e alla crisi possiamo attribuire anche un buon 25 per cento del nostro debito pubblico. Per questo, nonostante i buoni segnali provenienti dall’economia reale, restiamo vulnerabili al primo singhiozzo del mercato. Non solo. Se effettivamente l’insieme dei rischi globali — e in particolare un rallentamento degli Usa — dovessero accorciare la ripresa europea, noi ci ritroveremmo ad affrontare un nuovo choc negativo senza esserci ancora liberati dell’eredità dell’ultima crisi, quindi con pochi strumenti per affrontare la nuova. L’Italia non è il solo Paese dell’area euro che si trova in questa situazione. La crisi delle banche portoghesi, ad esempio, si iscrive nello stesso scenario.
Non c’è dunque tempo da perdere. Il problema delle banche e del trattamento delle sofferenze va affrontato con rapidità e lucidità. Era una crisi annunciata. Siamo arrivati in ritardo. Ma ciò che sta avvenendo in Italia deve valere da richiamo per l’Europa e farle comprendere che lo sforzo di riforma di questi ultimi anni è stato tutto mirato alla costruzione di regole appropriate per il «tempo di pace», cioè quando il peso della crisi sarà riassorbito. L’Europa, invece, non ha dedicato sufficiente attenzione a come accompagnare la transizione verso quella situazione di «normalità». Senza affrontare il problema della transizione, regole che sono da ritenersi giuste in tempi normali potrebbero rivelarsi controproducenti nel breve periodo. Il bail-in è un esempio illuminante di questa situazione. Ecco il tema che l’Italia e gli altri Paesi come noi esposti a nuove turbolenze per via del debito e delle sofferenze bancarie dovrebbero mettere al centro della discussione con Bruxelles.