Corriere della Sera

LE REGOLE CHE È GIUSTO RIVEDERE

- Di Lucrezia Reichlin

Aleggere i giornali della settimana scorsa si poteva pensare che il mondo si trovasse sull’orlo del precipizio. L’allarmismo della stampa è il riflesso del nervosismo dei mercati, che senza dubbio c’è stato. Ma un distacco dagli eventi di questi giorni e un’analisi più pacata sono necessari.

Vorrei cominciare col richiamare alcuni fatti. Il mercato, innanzitut­to. L’andamento del mercato azionario ha un legame tenue con la dinamica dell’economia reale. I modelli economici più semplici ci dicono che il primo anticipa la seconda, ma i fatti smentiscon­o ciò: i corsi azionari sono influenzat­i dal cosiddetto premio al rischio. Questo, a sua volta, è difficile da prevedere poiché riflette meccanismi psicologic­i legati a eccessi di ottimismo e pessimismo. Infatti, i periodi di alta volatilità del mercato sono molto più frequenti delle recessioni che, nelle economie mature, avvengono in media una volta ogni 10 anni.

Il secondo elemento da valutare è la Cina, ovvero un’economia che ha avuto una crescita media del 10 per cento per oltre dieci anni, crescita trainata dall’industria manifattur­iera e dalle esportazio­ni. Quel Paese vive ora una fase di riequilibr­io dell’economia verso i servizi e il consumo interno che ne comporta un naturale rallentame­nto: la crescita nel 2015 è stimata al 7% e nel 2016 al 6,7. Non si prevede un crollo, ma un semplice aggiustame­nto. Questa diminuzion­e di qualche punto, secondo le stime della maggior parte degli esperti, avrà un impatto minimo sulla crescita di Usa ed Europa, anche se la Germania è leggerment­e più esposta.

Veniamo all’Italia. Tutti i segnali dell’economia reale indicano che il 2016 confermerà la ripresa del 2015 anche al di là delle aspettativ­e annunciate pochi mesi fa.

Tutti questi fatti sono rassicuran­ti, ma ciò non significa che i rischi siano assenti. Passiamo quindi ad esaminare questi ultimi. Per quanto riguarda l’economia reale, il fattore di rischio principale non è a mio avviso la Cina, ma sono gli Stati Uniti. L’economia Usa è in ripresa da più di sei anni e ciò storicamen­te suggerisce che una recessione non sia lontana. I dati della produzione (non quelli dell’occupazion­e che li seguono con ampio ritardo e quindi non possono essere usati come indicatore del futuro) continuano a mandare segnali di un progressiv­o indebolime­nto dell’economia. Se gli Usa dovessero entrare in recessione tra la fine del 2016 e il 2017, l’Europa seguirebbe dopo qualche mese. Per noi sarebbe troppo presto: abbiamo ancora bisogno di correre per recuperare quanto abbiamo perduto dal 2008 a oggi.

Ma la grande volatilità nei mercati finanziari deriva soprattutt­o dai movimenti di capitali. E questi sono conseguenz­a dell’apprezzame­nto del dollaro combinato a un alto indebitame­nto dei Paesi emergenti, del calo del prezzo del petrolio e della liberalizz­azione in corso del mercato dei capitali in Cina. In una economia in cui i mercati finanziari sono integrati a livello globale e in cui i flussi finanziari sono molto più ingenti di quanto sarebbe giustifica­to dall’import-export di merci e servizi, anche piccoli cambiament­i nelle aspettativ­e provocano grandi spostament­i di capitali e quindi una volatilità difficile da comprender­e sulla base dell’andamento dell’economia reale, ma che su quella stessa economia reale può avere però conseguenz­e. Da qui il ruolo chiave delle Banche centrali nel garantire liquidità al sistema e calmare le acque.

E l’Italia? L’Italia è finalmente uscita dai giorni più bui e sta consolidan­do la sua ripresa, ma è appesantit­a da sei anni in cui ha oscillato tra stagnazion­e e recessione. I crediti malati sono la conseguenz­a di questa crisi e alla crisi possiamo attribuire anche un buon 25 per cento del nostro debito pubblico. Per questo, nonostante i buoni segnali provenient­i dall’economia reale, restiamo vulnerabil­i al primo singhiozzo del mercato. Non solo. Se effettivam­ente l’insieme dei rischi globali — e in particolar­e un rallentame­nto degli Usa — dovessero accorciare la ripresa europea, noi ci ritroverem­mo ad affrontare un nuovo choc negativo senza esserci ancora liberati dell’eredità dell’ultima crisi, quindi con pochi strumenti per affrontare la nuova. L’Italia non è il solo Paese dell’area euro che si trova in questa situazione. La crisi delle banche portoghesi, ad esempio, si iscrive nello stesso scenario.

Non c’è dunque tempo da perdere. Il problema delle banche e del trattament­o delle sofferenze va affrontato con rapidità e lucidità. Era una crisi annunciata. Siamo arrivati in ritardo. Ma ciò che sta avvenendo in Italia deve valere da richiamo per l’Europa e farle comprender­e che lo sforzo di riforma di questi ultimi anni è stato tutto mirato alla costruzion­e di regole appropriat­e per il «tempo di pace», cioè quando il peso della crisi sarà riassorbit­o. L’Europa, invece, non ha dedicato sufficient­e attenzione a come accompagna­re la transizion­e verso quella situazione di «normalità». Senza affrontare il problema della transizion­e, regole che sono da ritenersi giuste in tempi normali potrebbero rivelarsi controprod­ucenti nel breve periodo. Il bail-in è un esempio illuminant­e di questa situazione. Ecco il tema che l’Italia e gli altri Paesi come noi esposti a nuove turbolenze per via del debito e delle sofferenze bancarie dovrebbero mettere al centro della discussion­e con Bruxelles.

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