Ma l’Italia può agire solo con il sì di Tobruk
Palazzo Chigi aspetta che si formi il governo di unità nazionale: «Non vogliamo una nuova Somalia»
I piani di intervento della Difesa sono pronti da giorni, ma a Palazzo Chigi la posizione ufficialmente non cambia, nessun intervento in Libia se non si forma un governo di unità nazionale, che a sua volta chiede ufficialmente aiuto.
Ieri mattina si è tenuta una riunione del governo proprio in materia di sicurezza: hanno partecipato il ministro Alfano, il sottosegretario Minniti, il premier Renzi e i capigruppo di maggioranza. È emersa la preoccupazione per le difficoltà e gli stop nella formazione del governo libico, ma anche la convinzione che quella di una stabilizzazione politica, prima di ogni cosa, sia ancora la strada maestra, prima di ogni intervento militare.
«Non possiamo permetterci di avere una nuova Somalia a 400 chilometri dai confini di casa nostra», ha detto nel corso della riunione Marco Minniti, che nel governo ha la delega per gli apparati di intelligence.
Di sicuro un conto alla rovescia è partito: le notizie che arrivano dalla Libia sono in parte contraddittorie, ma dentro una scia che lascia trasparire ottimismo; alla fine, sono convinti a Palazzo Chigi, il nuovo governo libico riuscirà a decollare, «e bisognerà vedere cosa chiederanno in concreto, non è detto che ci chiedano di bombardare, dato anche il grande orgoglio nazionale».
Insomma una missione militare viene data per scontata, si spera quanto più ravvicinata possibile, con quali modalità è ancora da definire.
Di sicuro l’Italia potrebbe trovarsi a fronteggiare una situazione delicata. Ieri il New York Times ha confermato le indiscrezioni degli ultimi giorni: reparti di élite americani, inglesi e francesi, sarebbero già sul terreno libico, con ruoli di ricognizione, ma al Pentagono stanno accelerando sui piani operativi di eventuali bombardamenti, preoccupati per il rafforzamento dell’Isis a Sirte e in altre centri.
In un editoriale il quotidiano americano scrive che il Pentagono sta già intensificando la raccolta di dati di intelligence che serviranno per avviare nelle prossime settimane «una campagna militare che dovrebbe comprendere bombardamenti aerei e raid delle forze di elite americane». Il quotidiano parla di «significativa escalation», ma allo stesso tempo mette in evidenza «i rischi di una campagna militare», che «rappresenterebbe una importante progressione di una guerra che potrebbe facilmente allargarsi ad altri Paesi della regione».
Scrive ancora il Nyt: l’Italia è «pronta» a «fornire un contributo rilevante» alla coalizione militare, assumendo «un ruolo-guida». Ma in che termini questo contributo si concretizzerà — scriveva ieri l’Ansa, citando una fonte della Difesa — «è ancora presto per dirlo. Diverse opzioni sono sul tavolo, aspettiamo le decisioni della politica».
E la politica, sembra di capire, punta ad un intervento in cui un ex Paese coloniale come il nostro non sia obbligato a bombardare, a meno che non sia il prezzo del comando. «Ma i libici potrebbero anche chiedere di tutto tranne le bombe, dall’addestramento delle loro forze alla fornitura di armi, dalla messa in sicurezza dei pozzi petroliferi alla difesa delle principali città», era la speranza che ieri mattina si registrava al quarto piano di Palazzo Chigi.