Insulti incancellabili da non minimizzare
Peggio di così Luciano Spalletti, alla Roma, non poteva partire. Non tanto per il pareggio in casa all’Olimpico con il Verona, ultimo in classifica, e la successiva sconfitta con la Juve a Torino: può capitare. Ma il modo con cui ha sdrammatizzato l’insulto di Daniele De Rossi al centravanti bianconero Mario Mandžukic, come ha già sottolineato Tommaso Pellizzari, è sconfortante. Rileggiamo la frase testuale dell’allenatore giallorosso: «Mandžukic è andato lì a parlare con tutti, ha preso per il culo tutti e nessuno gli ha detto niente. Per cui io insegnerò ai miei giocatori a fare come lui, a mettersi la mano davanti alla bocca così non gli si legge il labiale. Perché De Rossi ha risposto alle indicazioni che gli sono state date dal suo avversario». Certo, ha riconosciuto che il suo giocatore (il capitano!) avrebbe dovuto «essere bravo». Anche per non rischiare la squalifica, immaginiamo. «Ma quando si perde… Quando si sta passando un momento di difficoltà come questo si perdono le attenzioni per i particolari come quello della mano, di tenerla lungo il corpo invece di mettersela davanti alla bocca. Gli insegneremo anche questo». Non una parola nel merito della questione: non una. Le parole «zingaro di merda» evidentemente, devono sembrargli irrilevanti. Men che meno è consapevole, nel suo analfabetismo sul tema, di cosa significhi l’insulto e soprattutto alla vigilia della Giornata della memoria. Cioè di quel 27 gennaio che ricorda il giorno della liberazione di Auschwitz, uno dei lager in cui non furono passati per il camino solo milioni di ebrei ma anche mezzo milione di rom e sinti. Un «Porrajmos» (sbranamento, in lingua romanì), figlio di secoli di razzismo e linciaggi. Un genocidio che vide il dottor Mengele scegliere per i suoi esperimenti più spaventosi, come avrebbe raccontato Helmut Clemens, che allora, a 18 anni, faceva il fattorino ad Auschwitz-Birkenau, proprio i bambini dei gitani. Preferibilmente con gli occhi blu: «Ero con Mengele anche quando cercava gemelli per gli esperimenti. Dovevo portarglieli e lui dava loro un numero extra. (…) Una volta ho visto che iniettava un liquido nei loro occhi, che diventavano enormi. Pochi giorni dopo ho visto gli stessi ragazzi morti». Per questo certi insulti sono mille volte più infami delle peggiori parolacce. Perché ignorano e banalizzano quel che è successo. E non c’è mano sulla bocca che possa farli apparire meno ripugnanti.