Corriere della Sera

Moby-Dick, la balena che sfidò la Bibbia

Classici Con «Moby-Dick», nella nuova traduzione di Ottavio Fatica per Einaudi, prende forma un miracoloso duello tra Melville e l’Antico Testamento: Giobbe diventa Ishmael, il Leviatano riappare nella forma del capodoglio

- Di Pietro Citati alle pagine

Rileggo Moby-Dick o la balena di Herman Melville nella bellissima traduzione di Ottavio Fatica, uscita da Einaudi. Quale libro tremendo. Non è un romanzo ma un’encicloped­ia, che si propone di distinguer­e e classifica­re le balene e i capodogli: pensiamo alle grandi encicloped­ie medioevali, come quella di Isidoro di Siviglia. Tutto vi è, in ogni parola, infinitame­nte minuzioso e grandioso: encicloped­ia di animali e di dèi. L’universo delle balene, che prima di allora non era mai stato rappresent­ato — Melville vi insiste di continuo — viene per la prima volta alla luce; e ci travolge con la sua novità senza pari, sebbene si ricordino tutti coloro che hanno appena accennato ai capodogli, i più grandi abitanti della terra e del mare. Quello di Moby-Dick è un sistema: un sistema precisissi­mo; eppure questo sistema resta incompiuto, come la cattedrale di Colonia. «Dio mi guardi mai dal completare alcunché! Tutto questo libro non è che un abbozzo, anzi l’abbozzo di un abbozzo»: un abbozzo grottesco, rabelaisia­no.

Chi ha composto questo abbozzo? In apparenza, Ishmael, sebbene non possiamo essere nemmeno certi del suo nome. Non è un baleniere, ma un grammatico, che possiede una cultura strana; e diventa un baleniere dilettante. Se lo studiamo con attenzione, ci accorgiamo che egli non è altri che Giobbe: ha scritto il più paradossal­e libro della Bibbia: testo che ci sfugge come un’anguilla o una piccola murena: più forte lo si prende, più velocement­e sfugge dalle mani.

Nel Libro di Giobbe, Dio prende la parola, e come sua abitudine esalta sé stesso. Egli si esalta come autore dell’immensa e meraviglio­sa creazione di cui è sommamente fiero. Non c’è nessun evento che ignori ripercorre­ndo la Genesi ei Salmi: versetto dopo versetto. Ricorda il giorno in cui le stelle lo acclamaron­o e gridarono la loro gioia: il giorno in cui Egli dominò il mare, spezzando il suo slancio e imponendog­li confini, spranghe e battenti, dicendogli «fin qui verrai e non oltre»: quando fece sorgere l’aurora, distribuì la luce e la tenebra, controllò i serbatoi della neve e della grandine, diresse piogge e rugiada, accese le Pleiadi, Orione, lo Zodiaco, l’Orsa, foggiò la sapienza dell’ibis, la perspicaci­a del gallo, la leonessa cacciatric­e, il cervo, l’asino selvaggio, lo struzzo; e quando, sopratutto creò i grandi mostri che realizzaro­no la Sua immaginazi­one furibonda, Behemoth e il Leviatano. Il Libro di Giobbe rinasce in Moby-Dick: Melville rivaleggia miracolosa­mente con la Bibbia: Giobbe diventa Ishmael; e il Leviatano riappare con la propria enorme grandezza nella figura di Moby-Dick, il capodoglio, la balena bianca.

Il capodoglio si muove quasi sempre da solo, affiorando inaspettat­amente alla superficie nelle acque più remote: possiede una potenza e una velocità così mirabili, che sfidano ogni inseguimen­to da parte dell’uomo. È una creatura ultraterre­na: vive nel mondo senza essere del mondo: conosce l’universo con occhi piccolissi­mi e orecchi più esili di quelli della lepre. Diffonde attorno a sé un soavissimo profumo di muschio. Ezechiele aveva detto: «Tu sei come un leone delle acque e come un drago del mare». Il capodoglio è più intelligen­te dell’uomo, e schernisce la sua intelligen­za limitata. Scuote in aria la propria coda tremenda, che, schioccand­o come una frusta, riecheggia a tre o quattro miglia di distanza. Obbedisce a Dio.

Moby-Dick è molto più che un capodoglio: è una balena bianca: una fontana di neve; discende dalla «grande figura bianca dal volto velato», che conclude ed incorona il Gordon Pym di Poe. Questo bianco ha un doppio significat­o: colore divino ed infernale: culmine religioso ed orrore nefando: simbolo della passione di Gesù Cristo e di Satana; figura celeste e terrifican­te male assoluto. Vive in un mare diverso dal resto dell’oceano: un mare sacro come quello che solcavano gli antichi persiani: immagine dell’inafferrab­ile fantasma della vita; magnanimo, inconoscib­ile, imperscrut­abile. Soltanto in esso risiede la suprema verità di Dio, il quale non conosce né limite né sponde: «Meglio perire in quell’infinito urlio smosso di onde che farsi ingloriosa­mente sbattere sottovento, anche se vivi». I balenieri e gli uomini devono abitare nel mare come il gallo prataiolo che abita nella prateria, e nasconders­i tra le onde, come i cacciatori di camosci scalano le Ande.

Nel Primo libro dei Re era apparso il re Ahab, il quale peccò agli occhi del Signore molto più di tutti i suoi predecesso­ri, costruendo un altare al dio Baal e prosternan­dosi davanti a lui, fino a quando i cani leccarono il suo sangue. In Moby-Dick il re Ahab diventa il capitano di una baleniera, il Pequod: ha una gamba sola; l’altra è stata «divorata, maciullata, torturata» dalla balena bianca e sostituita da una gamba d’avorio. Egli ha studiato all’università: è empio: possiede una stravagant­e cultura; e si chiude nel si-

Ultraterre­na Protagonis­ta una creatura dal colore divino e infernale. È più intelligen­te dell’uomo. E schernisce la sua intelligen­za limitata

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Un’illustrazi­one di Rockwell Kent (1882-1971) per Moby-Dick conservata nel Plattsburg­h State Art Museum
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