Corriere della Sera

PRIMARIE A MILANO LA SFIDA A TRE È UN TEST PER IL PD

Verso le urne L’esito del voto del 6-7 febbraio nel capoluogo lombardo darà a Renzi l’indicazion­e su che cosa bolle nel grande elettorato

- Di Michele Salvati

In ogni grande città l’elezione del sindaco è un caso a sé, dal quale non è immediato trarre conclusion­i politiche a livello nazionale. Questo era in parte vero già ai tempi della Prima Repubblica. È evidente oggi, in una situazione in cui i partiti tradiziona­li, tranne uno, sono praticamen­te scomparsi, le leggi elettorali radicalmen­te mutate — l’adozione delle primarie complica ulteriorme­nte il quadro — e la forma di governo profondame­nte alterata. La grande città è oggi una piccola repubblica presidenzi­ale nella quale i poteri del sindaco sono molto più incisivi rispetto a un non lontano passato e la sua figura e la sua persona sono al centro dell’attenzione e del conflitto, sia durante la campagna elettorale, sia dopo. Alcuni si lamentano della distorsion­e «presidenzi­alistica» del governo nazionale. Ma questo rimane a tutt’oggi ancorato a una forma parlamenta­re, mentre sono le città a essere passate a una presidenzi­ale: perché non ci si lamenta di questo e anzi lo si approva?

Forse perché le competenze (e dunque le decisioni) di un governo cittadino sono più ristrette e meno «politiche» di quello nazionale? E dunque non richiedono il riferiment­o ai grandi orizzonti ideologici e valoriali che invece impone il governo dell’intero Paese? Insomma, perché si tratta di competenze da «amministra­tore di condominio» più che da politico? In parte ciò è vero, naturalmen­te, ma solo in parte: si pensi al ruolo che il Comune deve svolgere nella gestione dei flussi di immigrazio­ne, o alle scelte relative all’assistenza, all’edilizia, all’ambiente urbano, e a molti altri temi in cui la buona amministra­zione va messa al servizio di orientamen­ti politici che possono essere assai diversi. Orientamen­ti in cui il Comune può assecondar­e o contrastar­e indirizzi nazionali, o può essere un laboratori­o in cui nuovi indirizzi vengono sperimenta­ti.

Ed è proprio perché un grande Comune fa politica — anche quando il suo sindaco dice di non farla, anche se l’autonomia rispetto ai partiti o ai movimenti cui il sindaco è personalme­nte vicino è garantita dai poteri di cui dispone e dal consenso che ha ricevuto in quanto eletto direttamen­te — che resta un legame tra la politica locale e quella nazionale. È per questo che partiti e movimenti a livello nazionale possono con qualche ragione affermare che una figura a loro vicina è stata eletta in una città, e interpreta­rlo come un successo della loro linea politica. Il caso delle primarie milanesi è un buon esempio di questo legame, proprio perché il Comune proviene da un quinquenni­o di buona, onesta e fortunata amministra­zione, e dunque la gara per la candidatur­a a sindaco non è turbata dalle vicende in cui Roma è coinvolta o dalla difficile situazione napoletana.

La buona amministra­zione milanese è stata attuata da una giunta «arancione» — Pd e Sel — subentrata a una precedente amministra­zione di centrodest­ra, e sicurament­e anche il Pd di Renzi non si sarebbe opposto alla continuazi­one di un’esperienza così positiva se Giuliano Pisapia si fosse ricandidat­o come sindaco. Per ragioni personali Pisapia non ha potuto ricandidar­si e forse alcuni ricorderan­no, nel dicembre scorso, la singolare lettera aperta dei tre sindaci arancione in carica (Marco Doria di Genova, Massimo Zedda di Cagliari, oltre allo stesso Pisapia) in cui si auspicava una prosecuzio­ne a livello locale di coalizioni di questo tipo come espression­e di una «vera» posizione politica di centrosini­stra, e come modello per l’intero Paese. L’auspicio, nel caso milanese, era però fortemente indebolito dalla defezione di Pisapia, nonostante che il sindaco abbia poi tirato fuori dal cappello una eccellente candidata, la vicesindac­o Francesca Balzani, come sua potenziale sostituta. In precedenza un altro bravo membro della giunta, legato alle posizioni più tradiziona­li del Pd, Pierfrance­sco Majorino, aveva presentato la propria candidatur­a e già stava dedicandos­i, con molto anticipo, alla campagna delle primarie.

Questa vicenda ha creato tensioni molto forti in Sel — nazionale e milanese — il quale ha lasciato ai suoi iscritti e simpatizza­nti libertà di voto. E ha aperto una autostrada alla candidatur­a di Beppe Sala, reduce dal successo dell’Expo e candidato ideale per gli elettori centristi e moderati: Sala non ha un passato di politico e di uomo di sinistra, ma per quegli elettori si tratta di un plus, non di un minus. E sicurament­e non è un candidato sgradito a Renzi, allargando il fronte del voto Pd a Milano nella stessa direzione in cui il segretario del partito cerca di allargarlo a livello nazionale. Tre candidati di valore, dunque, Balzani, Majorino, Sala: se non possiamo dire che ce n’è per tutti i gusti, ce n’è abbastanza per rappresent­are l’intera area politica che va dai centristi fino ai bersaniani e alla parte meno intransige­nte di Sel. Qualora le primarie del 6 e 7 febbraio vedessero una buona partecipaz­ione, il loro esito darà un’indicazion­e importante di che cosa bolle in pentola nel grande ed eterogeneo elettorato da cui Renzi cerca di trarre i suoi consensi.

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