Corriere della Sera

SE I POLITICI ASPETTANO LE PIAZZE

- Di Michele Ainis

Edue. Dopo le adunate arcobaleno del 23 gennaio (un milione di persone in 96 città, per difendere la legge sulle unioni civili), oggi tocca al Family day contro la stepchild adoption. Che nonostante l’etichetta non si terrà sulle rive del Tamigi, bensì a Roma, al Circo Massimo; e anche stavolta sono attesi un milione di manifestan­ti. Insomma, una piazza spiazza l’altra. Ma chi rimpiazza questa piazza? Il Parlamento, o ciò che ne rimane. Perché ieri come adesso non è in questione il sacrosanto diritto di riunirsi, d’assieparsi in folle vocianti inalberand­o le proprie ragioni. No, è in questione il modo in cui la politica s’atteggia dinanzi a tali eventi, la singolare inversione di ruoli e competenze fra popolo e Palazzo.

Le prove? Già la conta delle adesioni illustri ha un che d’improprio, d’irrituale. La settimana scorsa, a sfilare in sostegno del ddl Cirinnà, c’erano ministri (Martina), viceminist­ri (Della Vedova), sottosegre­tari (Scalfarott­o), governator­i (Serracchia­ni), sindaci (de Magistris), e ovviamente frotte di parlamenta­ri. Oggi è previsto il bis, sicché ti monta in gola una domanda: ma contro chi manifesta cotanto manifestan­te? Contro il legislator­e, cioè contro se stesso. E no, gioco scorretto: a ciascuno il suo mestiere. Chi governa deve sfornare testi, non proteste. Almeno su quelle, lasciate il monopolio ai cittadini, dato che voi esercitate il monopolio sulle leggi. Sennonché pure quell’antico dominio parrebbe ormai senza padroni.

Il disegno di legge sulle coppie gay aveva subito un’accelerazi­one alla vigilia della piazza favorevole, è rallentato bruscament­e alla vigilia di quest’altra piazza, tanto che il voto sulle pregiudizi­ali di costituzio­nalità è stato rinviato. A quale scopo, forse per contare le adesioni? Ma il principio di maggioranz­a vale nelle assemblee legislativ­e, non sui marciapied­i. In democrazia si governa con un seggio in più, non con un corteo più numeroso. Anche perché altrimenti s’investe la piazza di un potere interditti­vo, del quale ha immediatam­ente approfitta­to Massimo Gandolfini, promotore del Family day. Venite in molti, ha detto, così fermeremo questa legge. E se Renzi non ci ascolta, bocceremo pure il referendum costituzio­nale. Ma perché, la nuova Costituzio­ne è omosessual­e?

E a proposito di referendum. È l’unica pistola di cui sono armati i cittadini, il solo contropote­re popolare avverso gli abusi o gli errori del potere. In questo frangente, viceversa, l’ha evocato Alfano, ministro dell’Interno. Per carità, è un suo diritto. Ma è un dovere dei politici governare nelle istituzion­i, non nelle piazze. Intervenir­e in Parlamento, non nei talk show televisivi, dove ormai s’incontrano più senatori che in certe sedute a Palazzo Madama. Occuparsi di leggi e di decreti, non d’una frasetta pronunziat­a a Ballarò dal suo conduttore. Ed è un dovere — etico, politico, giuridico — reggere anche il peso di decisioni impopolari, se lo reclama l’interesse generale. Governare significa scontentar­e, diceva Anatole France.

Ecco, è da quest’impotenza che deriva la potenza della piazza. Da una politica debole, in crisi di fiducia popolare, che insegue perciò l’ultimo sondaggio, l’ultimo dato d’ascolto in tv. Ne è prova la retromarci­a del governo sul reato d’immigrazio­ne clandestin­a: avrebbe dovuto abrogarlo ai primi di gennaio, poi non ne ha fatto nulla, troppi mal di pancia nell’elettorato. Eppure l’altro ieri il presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, ha ribadito che si tratta d’un reato inutile e dannoso. Nessuna reazione; forse gli converrà indire a sua volta un Justice day. Nel frattempo il Parlamento è debole nei confronti del governo, il governo è debole nei confronti delle piazze. Ai politici italiani, più che un voto, serve una vitamina.

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