In 15 anni tutto è cambiato ma ci vestiamo e pettiniamo come nel 2001. Perché?
Un film (Spotlight) fotografa come eravamo vestiti nel 2001: stesse camicie, stessi colori e stessi tagli di capelli. Il tempo, in qualche modo, si è fermato. Per colpa della tecnologia
L’eterno presente Douglas Rushkoff ha elaborato il concetto di choc del presente, la complessità e il disorientamento di vivere in un eterno presente
Rivedere nell’anno 2016 — in cui 3,3 miliardi di persone sono connesse a Internet: quasi metà della popolazione mondiale — il primo episodio della saga di Guerre Stellari (1977) fa impressione — e tenerezza – allo stesso tempo: tutta la trama del film poggia sull’impossibilità, per i ribelli, di mandare una semplice e-mail. E così un messaggio realizzato tramite uno spaventosamente sfuocato e gracchiante ologramma deve essere consegnato a mano, attraverso la galassia. Quello di Star Wars non è ovviamente il futuro – «Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana» ci avverte l’incipit di ogni film della serie arrivata già al settimo episodio – ma certo ci si domanda, con l’iPhone in tasca e il computer di casa connesso con la fibra, come mai le astronavi viaggino a velocità irreali ma i monitor abbiano ancora il tubo catodico, e tutto sembri così arrugginito.
La risposta, ovvia, è che a metà anni 70 era difficile immaginare il futuro della tecnologia: William Gibson, lo scrittore che ha inventato la parola «ciberspazio» ammette oggi che non aveva, semplicemente, previsto che ci sarebbero stati i telefoni cellulari. Ma uno dei motivi per i quali Guerre Stellari continua a emozionarci, nostalgie a parte è che cercò di immaginare tra tutta quella tecnologia un po’ traballante una nuova forma di umanità: c’erano i pelosi umanoidi e gli altri bizzarri avventori del famoso bar, d’accordo, ma l’homo sapiens in quella galassia lontana lontana aveva elaborato un nuovo umanesimo, quello dei cavalieri Jedi, e una nuova filosofia. Oggi il lato oscuro della Forza — per noi occidentali la Forza è la tecnologia: è grazie a lei, e alle sue numerose applicazioni belliche, come non si stanca di spiegare il professor Jared Diamond, l’autore di Armi, acciaio e malattie (Einaudi), per un paio di millenni e mezzo abbiamo fino a pochissimi anni fa dominato il globo — lo vediamo quotidianamente nei tg e nelle loro preoccupanti notizie. Senza accorgerci, magari, che da un ventennio la tecnologia continua a evolversi con tanta velocità da aver non soltanto lasciato indietro, ma letteralmente fermato, come se avesse premuto il tasto «Pausa», quasi tutto il resto.
Se ne ha la dimostrazione visiva, inequivocabile sul grande schermo, guardando Spotlight. Il film, lanciato verso gli Oscar con sei nomination, racconta lo scoop del Boston Globe che quindici anni fa smascherò gli abusi sui minori da parte di decine di sacerdoti della locale diocarta cesi. I film hollywoodiani ricostruiscono sempre – è la bravura di arredatori e costumisti, e l’abbondanza di budget nel resto del mondo improponibili — con precisione maniacale il periodo storico che raccontano (celebre l’aneddoto della redazione del Washington Post ricostruita in studio a Los Angeles per Tutti gli uomini del presidente, una copia 1:1 assolutamente identica, fino alla spazzatura nei cestini della straccia dei giornalisti: quelli originali erano stati svuotati, il contenuto fotografato con centinaia di Polaroid). Eppure il 2001 di Spotlight è pressoché identico al nostro 2016: stesse camicie button down e pantaloni kaki o grigi per gli uomini, stesse scarpe, stesse bluse per le donne, stessi tagli di capelli. L’unica cosa diversa, davvero diversa? La tecnologia. Allora non c’era Twitter, non c’era Facebook, non c’era Instagram, non c’era l’iPhone (ci pare che esista da una vita: compirà dieci anni nel 2017) e ovviamente non c’era Android. Nel film si usa il Blackberry (0,4% del mercato nel 2015).
Possiamo dire che se trasportassimo Spotlight ai giorni nostri qualcuno di quei giornalisti porterebbe la barba — nel 2001 eravamo tutti glabri — e che magari i più patriottici porterebbero una bandierina americana all’occhiello (l’11 settembre succede più o meno a metà del film: prima, era davvero un altro mondo). Per il resto, è tutto incredibilmente uguale. E siamo a 15 anni fa. Immaginiamo un ulteriore balzo all’indietro di 15 anni: 1986. Quello del Lupo di Wall Street di Scorsese con DiCaprio, uscito l’anno scorso: la differenza tra uomini e donne del 1986 con quelli del 2001 è enorme, un altro mondo (senza stare a guardare la tecnologia): i capelli cotonati per le donne e lunghi sulla nuca
per gli uomini, le spallone delle giacche, la vita ascellare dei pantaloni larghi sui fianchi con un numero fuori controllo di pinces.
Il sociologo Alvin Toffler nel 1970 (per contestualizzare: l’anno dopo lo sbarco sulla luna, il primo scassato aereo dei fratelli Wright era decollato soltanto 66 anni prima) analizzò lo «shock del futuro», la società che cambiava tanto in fretta da disorientare, la sensazione di essere proiettati in avanti, di non poter tenere il passo (e ogni sette-otto anni cambiava completamente anche la moda, l’arredamento, tutto). E’ bastata una generazione (e mezza) per arrivare allo «shock del presente» di Douglas Rushkoff. Ora il nostro disorientamento nasce dall’esperienza di «ogni cosa che accade adesso», in un mondo siamo onnipresenti noi, grazie alla tecnologia, ai social media, agli smartphone, al sogno della connettività mobile 24 ore su 24, su scala globale in 5G. Passato e futuro sfuocati in «presente infinito» da 15 anni, tutta l’innovazione – e tutto il futuro – assorbiti dalla tecnologia che portiamo con noi in tasca, minuto per minuto, connessi con un mondo dove tutto – così ci pare – è stato creato su misura per noi.