L’IMPORTANZA DI AVERE UN LEADER
Sempre populismo è. Ma attenti a confondere quello di Berlusconi con quello di Renzi. Nel suo nuovo libro La democrazia del leader (Laterza, pagine 160, 13) Mauro Calise analizza i due diversi modelli italiani. E sottolineando le differenze più che i tratti comuni, mette a fuoco ciò che ritiene essere un passaggio decisivo della nostra storia politica: dall’era (recente) del partito personale a quella (corrente) che dà il titolo al suo saggio. Un passaggio positivo, lascia intendere l’autore: perché il partito personale, il partito del capo carismatico, faceva intuire sin dall’inizio pericolose derive legate alla sua tenuta in un mondo senza più organizzazioni di massa e sempre più disunito; mentre la democrazia del leader, quella americana, quella in cui i partiti si mettono al servizio del capo governante, fa comunque sperare in un approdo. Si regge infatti più sull’esercizio del potere che sulla sua semplice ostentazione.
Del partito personale, Calise ha scritto già nel 2000. Sedici anni dopo, eccolo dunque tornare sul tema per estenderlo ulteriormente. Da sociologo della politica e da studioso della sua modernizzazione, non ha dubbi: il partito personale è stato una straordinaria innovazione. E a Berlusconi va il merito di averla sperimentata in Italia. Ma, facendone un pilastro del nuovo assetto politico, il Cavaliere si è trascinato dietro, nella Seconda Repubblica, qualcosa che apparteneva alla Prima: l’elemento ideologico. Berlusconi, dice Calise, ha puntato tutto sull’anticomunismo e così ha tenuto diviso il Paese. In più, è rimasto prigioniero del proprio narcisismo, vedi la fine che ha fatto la sua squadra.
Renzi, invece, per un tratto si spinge oltre, per un altro si trattiene. Coltiva il carisma oltre ogni misura, ma si guarda bene dal creare un partito tutto suo, col rischio, poi, di ritrovarsi con poco o nulla tra le mani. Si tiene piuttosto quello che c’è, il Pd, e nel frattempo rafforza con le riforme il fronte istituzionale. In più, senza mai individuare il nemico all’interno del corpo sociale allargato. Sceglie non a caso «categorie ristrette, elitarie, privilegiate, che si tratti della nomenclatura burocratica o di gruppi di opinione il cui collante è il remare contro: i gufi, i rosiconi...». Renzi è decisionista, ribadisce Calise. Berlusconi molto meno. Renzi è presidenzialista e lavora per questa prospettiva. Berlusconi lo è nelle intenzioni, non nei fatti.