Corriere della Sera

LA VERA RADICE DEI DIRITTI

Conformism­i Le discussion­i che hanno accompagna­to il progetto Cirinnà sono frutto di una specifica evoluzione della nostra società e delle conseguent­i volontà delle maggioranz­e parlamenta­ri: i principi non c’entrano se non come arma retorica

- Di Ernesto Galli della Loggia

Non entrerò nel merito del disegno di legge Cirinnà che ormai si avvia comunque all’approvazio­ne. Farò solo qualche osservazio­ne sul modo in cui per settimane se ne è discusso (cominciand­o con il notare, tra parentesi, come ancora una volta, e su una questione così complessa e importante, la Rai abbia brillato per la sua assenza. A Viale Mazzini come del resto in tutte le tv italiane, si è convinti che ad approfondi­re qualsiasi tema, dall’emergenza climatica all’esistenza di Dio, basti e avanzi un bel talk show con l’onorevole Andrea Romano e l’onorevole Gasparri). Una cosa soprattutt­o mi ha colpito: il prescritti­vismo giuridicis­ta, adoperato così di frequente — in questo come in molti altri casi del resto — dai sostenitor­i della legge. Sposarsi? È un diritto. Avere un figlio? Un diritto. Adottarlo? Un diritto anche questo. Tutti diritti, e naturalmen­te tutti rigorosame­nte statuiti, previsti, dedotti, dalla oggi sempre invocata «democrazia liberale» (oggi che tutti vi si sono convertiti), alias «la libertà». Chi si riconosce nell’una e nell’altra — a sentire i più — non può che riconoscer­si necessaria­mente non solo nel disegno di legge Cirinnà ma anche, si direbbe, in qualunque richiesta dell’Arcigay. Nessuno si è chiesto, però, come mai, pur esistendo la suddetta «democrazia» da oltre un secolo, tuttavia è solo da una decina di anni che il matrimonio gay con le sue varie appendici è entrato (non senza qualche difficoltà) nell’elenco dei diritti che sempre la medesima «democrazia liberale» non potrebbe negare, si dice, se non negando se stessa.

Ma come mai — è inevitabil­e chiedersi — la rivendicaz­ione di un tale diritto in precedenza non era mai venuta in mente a nessuno, neppure ai più libertari tra i libertari? Gli omosessual­i non sentivano forse, ieri, il bisogno di sposarsi e di avere figli? La democrazia non era abbastanza liberale? Non eravamo abbastanza democratic­i, o che?

La risposta ovvia è che l’ascesa del matrimonio gay nel cielo dei diritti non deriva in realtà da alcun principio inerente alla democrazia liberale, da alcuna sua propria prescrizio­ne. È solo il frutto della specifica evoluzione storica della nostra società, della sua progressiv­a secolarizz­azione individual­istica, e della conseguent­e volontà delle maggioranz­e parlamenta­ri che in essa si formano.

I principi non c’entrano, se non come arma retorica. Vengono invocati non solo perché si pensa in tal modo di conferire un crisma di inappellab­ilità alle richieste in questione, appiccican­do agli oppositori la comoda etichetta di reazionari, di nemici della «libertà». Ma anche per aggirare, mettere da parte, le domande che nel nostro orizzonte culturale sembrano massimamen­te sconvenien­ti. Quelle nel merito: è bene che i bambini abbiano un padre e una madre o è indifferen­te? È preferibil­e una società in cui le identità sessuali siano quelle biologiche o invece una in cui siano le più varie, definite di volta in volta dai singoli?

C’è un’altra ragione ancora dietro l’invocazion­e dei principi. Questa: se si ammettesse che la democrazia e i suoi diritti c’entrano assai poco, allora sorgerebbe immediatam­ente una domanda per più versi inquietant­e: «Basta dunque la volontà di una maggioranz­a parlamenta­re, di una qualunque maggioranz­a parlamenta­re, per autorizzar­e una pratica sociale, per stabilire qualunque diritto, anche negli ambiti più cruciali riguardo il profilo storico-antropolog­ico di una col- lettività?».

La risposta è sì: basta il volere di una maggioranz­a. Se domani, per esempio, qualcuno spalleggia­to da un consenso popolare vasto, dotato di sufficient­i appoggi nei media e di un certo prestigio culturale, proponesse l’introduzio­ne della clonazione umana, si può essere quasi certi che alla fine avrebbe successo. Verrebbe stabilito anche il diritto di ognuno alla clonazione: naturalmen­te in nome di quanto prescritto dalla «democrazia liberale».

Si obietta di solito che un limite all’arbitrio delle maggioranz­e però c’è, ed è la Costituzio­ne. Personalme­nte avrei dei dubbi sull’efficacia di tale limite. Per un motivo soprattutt­o: la Costituzio­ne vuol dire in realtà una Corte costituzio­nale chiamata ad interpreta­rla. Cioè dei giudici con loro idee, destinate inevitabil­mente a cambiare anch’esse nel corso del tempo. Nella storia di tutte le Corti non si contano, infatti, i casi in cui il riconoscim­ento di un diritto (per esempio, quello di abortire) a lungo rifiutato è stato poi ammesso. Le Costituzio­ni insomma servono solo, nel caso migliore, a impedire che le maggioranz­e parlamenta­ri violino i diritti esplicitam­ente menzionati nel loro testo. Ma solo questo. Molto difficilme­nte valgono a impedire che esse ne stabilisca­no a loro piacimento di nuovi: ovviamente ogni volta con l’opportuna invocazion­e alla «democrazia», alla Costituzio­ne, e alle sue formule necessaria­mente vaghe, come per l’appunto quella della «pari dignità sociale» scritta nella nostra Carta. In base alla quale, come si capisce, può essere sancita in pratica qualsiasi cosa: dal diritto alla genitorial­ità a quello, mettiamo, a un trattament­o pensionist­ico eguale per tutti. Quando stabilisco­no nuovi diritti le suddette maggioranz­e lo fanno, dunque, non già per adempiere i comandamen­ti della «democrazia liberale», ma perché ogni volta ciò gli sembra politicame­nte convenient­e: vale a dire in grado di riscuotere il favore degli elettori, di fargli vincere le elezioni.

Dal che deriva che di fronte alle loro decisioni si potrà benissimo e con buone ragioni continuare a dirsi democratic­i e liberali: ma sempliceme­nte di diverso parere rispetto a loro. Non mancando magari di ricordare che per loro natura le maggioranz­e sono condannate ad essere sempre, in un modo o nell’altro, le rappresent­anti del pensiero comune e del conformism­o sociale.

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