Corriere della Sera

L’ultimo libro di Lévy «Essere ebrei è rivolgersi agli altri»

Il Ruanda, l’Ucraina, il Medio Oriente: la filosofia morale di Bernard-Henri Lévy va sul campo

- di Stefano Montefiori

«In questo libro difendo l’umanesimo contro il comunitari­smo. Sostengo che l’essere ebrei è rivolgersi agli altri uomini e mai restare chiusi in se stessi. Difendo una concezione aperta del giudaismo», dice al «Corriere» Bernard-Henri Lévy, alla vigilia dell’uscita in Francia del suo nuovo saggio L’esprit du judaïsme (Grasset). È un’opera filosofica e politica, un manifesto e un racconto personale. Sono 438 pagine che spiegano come sia stato inevitabil­e, per l’uomo che ha avuto la fortuna di conoscere Emmanuel Lévinas e diventarne allievo, sporcarsi le mani con la realtà. Difendere Israele, a partire dalla guerra dei Sei giorni fino a oggi. E accanto a questo, provare a modificare gli eventi e rifiutarsi di assistere all’orrore. Pensare, scrivere e agire, dal Bangladesh all’Ucraina, dal Darfur al Ruanda, dal Kurdistan alla Libia: cause teoricamen­te lontane, sentite come una chiamata individual­e alla quale sarebbe stato illogico e ignobile resistere.

«Il personaggi­o centrale del mio volume è il profeta Giona, l’unico che non parla ai suoi, ma che si rivolge al popolo più lontano, il più ostile. Ed è questo il suo dovere. Il libro di Giona è il mio libro preferito all’interno dell’Antico Testamento. Quello che nei viaggi ho portato sempre con me». Giona predica agli abitanti di Ninive, la capitale corrotta dei nemici, gli Assiri, sui quali sta per abbattersi la punizione divina. Giona parla ai nemici, e li salva. Oggi Ninive è Mosul, cuore dell’Isis in Iraq. «Sono stato a Ninive — scrive Lévy — non una ma molte volte. E ho passato una parte non trascurabi­le della mia vita ad agire in favore di popoli che non erano i miei, la cui sorte avrebbe potuto essermi indifferen­te e che erano talvolta, in potenza o in atto, i nemici di chi io sono».

Oggi Ninive è anche la Libia. Nel 2011 Lévy si è impegnato di persona per convincere l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy a intervenir­e in favore dei ribelli, per evitare il bagno di sangue promesso da Gheddafi. I raid aerei dell’Occidente fermarono i carri armati che stavano per compiere un massacro a Bengasi, Gheddafi è stato ucciso, ma le speranze di una primavera libica sono andate tradite, il Paese è in preda all’espansione dello Stato Islamico. Molti si indignano perché l’Occidente non è intervenut­o in Siria e non ha salvato i siriani dalla furia di Assad, ma allo stesso tempo si rimpiange Gheddafi e la sua funzione stabilizza­trice. Si è pentito, Lévy, di avere aiutato i ribelli libici?

«No, non ho cambiato opinione su quel che ho fatto in Libia e quel che continuerò a fare per tutta la mia vita — risponde —. Lo scontro tra democratic­i e fondamenta­listi, tra moderati e integralis­ti è la battaglia della nostra epoca. Bisogna fare tutto il possibile per appoggiare coloro che, con molto coraggio, si battono all’interno dell’Islam contro la sua versione mortifera». Lévy crede nell’universali­tà dei diritti dell’uomo: è il suo spirito del giudaismo. «Niente di quel che ho fatto l’avrei fatto — dice —, se non fossi stato ebreo».

@Stef_Montefiori

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